Le rime

I.

L’esercizio delle rime ha inizio, per quanto possiamo sapere dai documenti da noi posseduti e dalle notizie del Condivi[1], piuttosto tardi, intorno al 1502-1503, anche se già prima in Bologna, nel 1494, egli aveva dato prova della sua dimestichezza con i grandi autori del Trecento ed «altri poeti toscani» leggendoli al suo protettore ed ospite, l’Aldrovandi[2]: dimestichezza che certo risale agli anni del soggiorno nel palazzo di Lorenzo e che poi poté accrescersi negli anni successivi, specie nel nuovo periodo fiorentino appunto negli anni 1501-1506, quando incontriamo i primi frammenti e i primi componimenti poetici: nati i frammenti come trascrizione di versi danteschi e petrarcheschi fra uso di sentenza («la morte è il fin d’una prigione oscura»), e sollecitazione di proprie fantasie, o modificati lievemente e sintomaticamente come nel caso del frammento 13[3] (in cui la prima quartina del sonetto petrarchesco 271 è modificata al secondo verso con la sostituzione di «ardendo» a «interi»: «contando anni ventuno ardendo preso», come intensificazione dell’iniziale «l’ardente»), per risalire poi a piú personali avvii fra sentenze intense («La voglia invoglia e ella ha poi la doglia», frammento 2), assimilazioni eroiche con i soggetti del proprio operare artistico («Davitte colla fromba e io coll’arco», frammento 3), e tentativi di inizi di poesie fra echi di poesia spirituale

(Laudate parvoli

el Signore nostro,

laudate sempre. – frammento 15)

o inclinazioni di poesia amorosa su sfondo idillico (il frammento 5:

Al dolce mormorar d’un fiumicello

c’aduggia di verd’ombra un chiaro fonte

c’a star il cor...)

poi risolutamente scartate.

Spunti che già ci rimandano a una incipiente volontà di espressione poetica fra riprese e spunti personali (quasi che l’espressione artistica predominante e in specie quella scultorea, sentita particolarmente allora come la sua arte professionale[4], non bastassero alla sua necessità espressiva, in concomitanza con un periodo di approfondimento che è alla base della sua stessa attività figurativa piú matura[5]) e insieme a quella preparazione di lettore e di partecipe di una civiltà letteraria tardo-quattrocentesca, che rimane sostanzialmente (con le sue premesse dantesche e petrarchesche) la base letteraria piú importante della poetica michelangiolesca, piuttosto chiusa all’eco degli sviluppi cinquecenteschi e a questi piuttosto parallela e, viceversa, anche piú avanzata, ma per una via piú particolare, segnata all’inizio da questa origine tardo-quattrocentesca.

Ché, a parte le rime, e specie le rime spirituali, della Colonna, e minori prodotti del piccolo cerchio di amici letterati (Del Riccio, Giannotti, ecc.), non mi sembra che Michelangelo abbia prestato grande attenzione (neppure esplicitamente polemica) alla lirica e alla poesia seguente all’incidenza del Bembo, e per lo stesso Berni si trattò piú di un incontro su vie sostanzialmente assai diverse, che non di una collaborazione e di una profonda attenzione da parte di Michelangelo.

Sí che certe consonanze generali non vanno al di là di un diverso sviluppo di certi elementi comuni di base, come lo stesso platonismo e certo gusto metaforico e concettoso[6] vanno soprattutto intesi e fatti valere alla luce della particolare situazione michelangiolesca, anche se con un generale orientamento fra base prebembesca e sviluppi premanieristici, che non è certo solo di Michelangelo nel panorama complesso della lirica cinquecentesca, alla fine mal rappresentabile solo nel segno comune del platonismo e del rapporto con il Petrarca e con il Bembo (petrarchismo e antipetrarchismo) o con un compatto filone di bernismo.

Certo è comunque che la base letteraria di Michelangelo è nettamente precedente alla fase bembistica e allo sviluppo del petrarchismo a quella piú legato, oltre che allo sviluppo stesso del Berni e del bernismo. Ché, si noti, la stessa situazione di generazione stacca decisamente indietro i punti di partenza michelangioleschi da quelli dei piú giovani rappresentanti della lirica cinquecentesca, tutti nati circa un ventennio dopo, e spesso piú, rispetto alla nascita del Buonarroti, il quale comincia la sua attività di rimatore in anni in cui ancora lo stesso Bembo era piú legato a moduli cortigiani e tardo-quattrocenteschi (e d’altra parte il Berni era ancora un bambino quando Michelangelo scriveva il sonetto caudato sulla pittura della Sistina).

La cultura letteraria di Michelangelo ha come antecedenti piú lontani la Commedia, usufruita nel congeniale sforzo morale-poetico e nella creatività del linguaggio fra realismo e tensione spirituale, e un Petrarca ripreso alla luce del piú dinamizzato contrasto interiore e del suo sviluppo in antitesi di termini concettistici e sulla linea dell’asprezza e della potenza dantesca[7], e, nella zona storica piú contemporanea ai suoi anni formativi, Lorenzo dei Medici, Savonarola e savonaroliani, echi del Pulci e dei burleschi (a lor volta risentiti spesso attraverso Lorenzo), prosa platonica di Landino, Ficino, Pico, e di nuovo Savonarola, e soprattutto Girolamo Benivieni con la sua fusione di platonismo e di cristianesimo savonaroliano, di echi petrarcheschi e danteschi: oltre a quella diffusa attività madrigalesca-musicale che Michelangelo poté pur conoscere attraverso l’opera di musici come Heinrich Isaac, il Tromboncino, il Corteccia (con utilizzazioni di testi madrigalistici e ballatistici petrarcheschi e contemporanei fino a quelli dei lirici cortigiani). Molto meno potrà parlarsi di Poliziano, la cui eco può avvertirsi in parte nelle ottave del componimento sulla vita campestre che però poi si svolge, lontano dal possibile modello di avvio, verso toni e temi diversissimi.

Già in Lorenzo Michelangelo trovava (anche se intriso di una sensibilità piú morbida e di un gusto elegiaco-idillico con bisogno di sfondi paesistici ed eleganti richiami mitologici) precisi avvii dello svolgimento della tematica amorosa in forme di antitesi fra termini emblematici e riassuntivi di opposte condizioni della vita dell’animo preso dall’amore[8], che accentuavano in questa direzione ingegnosa le stesse offerte petrarchesche. Mentre nella direzione di una poesia realistica incontrava l’esempio della Nencia (allargato con echi del fare burchiellesco e della deformazione piú risentita del Pulci) e in quella della poesia spirituale (fra platonismo e religione: la seconda subordinata al primo) poteva apprendere già un primo modo di fondere amore platonico e tensione religiosa. E se sulla direzione del gusto e della decisività della metafora e del concettismo ingegnoso non dovettero mancare suggestioni del madrigalismo di tipo cortigiano usufruito nel madrigalismo musicale fiorente in Firenze, sulla direzione di un uso delle antitesi concettuali-verbali (tanto importanti nella concezione della poesia e nella sua attuazione da parte di Michelangelo, e cosí diffuse nella zona lirica prebembesca), in funzione di una tensione platonica e platonico-cristiana, essenziale mi sembra l’incontro con le poesie di Girolamo Benivieni: uno scrittore che realizzava una singolare e impegnata fusione platonico-savonaroliana al culmine di una attività che aveva prima attinto direttamente al platonismo e alla illustrazione poetica del suo iter ascensivo con la celebre Canzone d’amore commentata dal Pico e poi si era rivolta a canti piú apertamente «piagnoni» savonaroliani (che Michelangelo del resto poté risentire anche nella forma piú diretta del Savonarola[9]).

Nelle poesie del Benivieni Michelangelo trovava intense concentrazioni antitetiche ricavate dal pieno di un impegno espressivo piú teso all’essenziale, scabro e spregiudicato, recuperante su questa direzione molte forme e stimoli danteschi che potevano incoraggiare Michelangelo a un piú diretto contatto con il poeta piú amato e sentito, almeno come aspirazione, congeniale[10].

Da questa lezione (c’è chi ricorda il Benivieni come il preciso maestro di poesie di Michelangelo) derivava uno spirito che spiega preliminarmente i forti avvii di inarcamento «ingegnoso».

Naturalmente questa base di esperienza letteraria (con quello che comporta di elementi culturali e spirituali avviati già dal Benivieni in una tensione espressiva) non è di per sé bastante a spiegare la necessità e le forme dell’espressione poetica michelangiolesca, che nascono da una reinterpretazione di istanze della sua formazione entro un violento accento personale che quelle estremizza ed esalta (con un che di piú arcaico e di piú avanzato insieme) entro una via fortemente personale e pur non astorica, e con esiti e direzioni che creano nuove aperture storiche (verso il manierismo e il barocco a vario livello) e si alimentano della ricca e drammatica vita interiore di Michelangelo nel suo lungo percorso. Nel quale (pur ammettendo la forza di persistenza di certi moduli e topoi divenuti personali ed essenziali) si assiste però ad un muoversi e svolgersi dei nuclei poetici e delle loro maniere espressive, dalle prime prove piú varie, impetuose e disordinate, agli ultimi sonetti della vecchiaia, con svolte e passaggi che la recente sistemazione cronologica del Girardi ci permette di utilmente seguire ed individuare, anche se con limiti di approssimatività, avvicinandosi cosí alla ricca potenzialità poetica di Michelangelo meglio che in un assaggio e scandaglio per campioni indifferenziati nel tempo.

II.

Se gli agganci piú scoperti con forme petrarchesche possono ritrovarsi nei frammenti già citati (ma già insieme ad altri elementi di suggestione dantesca, savonaroliana e laurenziana), il vero inizio dell’attività poetica verso il 1503-1506 fin verso il ’20 (con dietro un proseguimento fino alla zona Cavalieri e l’inizio dell’ultimo periodo romano) si caratterizza per una aperta immissione di forza personale che finisce per trasformar ogni eco altrui con una violenza di accenti che possono rilevarsi in ognuna delle varie vie tentate in una disposizione esplosiva piú disordinata, in una irrequietezza e in una volontà e necessità espressiva impetuosa e scoperta, legata anche alla forza di un periodo inquieto, ma piú fiducioso e volitivo. E dunque in modi che mal potrebbero dirsi puramente scolastici, pur notando spesso basi dirette: ad esempio quella laurenziana della Nencia per le ottave del 20, quella dei canti savonaroliani per il 21 o esempi petrarcheschi e danteschi per il 10 o echi benivieniani e laurenziani per i moduli di antitesi ardore-ombra, piacere-dolore (2), ardore-ghiaccio (19), catene-libertà (7), legno «verde e arso» o magari precise immagini del platonismo ficiniano (l’immagine del pesce e dell’amo che il De Vecchi raccorda a una frase del De amore del Ficino[11]).

Ma tutto viene estremizzato e le varie vie di ricerca espressiva, legate a temi spesso di ardente e scoperta occasionalità autobiografica (e in un irraggiarsi piú vasto della semplice tematica amorosa), già mettono a nudo l’eccezionale tensione drammatica storico-personale che Michelangelo immette nella poesia puntando in genere sulla concentrazione (donde le forme spesso metricamente non organizzate secondo schemi tradizionali), sul rilievo dei momenti essenziali, con un certo disprezzo per la compiutezza e la finitezza convenzionale, per l’articolazione intera e le amplificazioni e le connessioni piú elaborate.

Sia che egli tenda ad esprimere il piacere intenso e sensuale di un immaginato possesso amoroso trasferito nella identificazione con i particolari dell’abbigliamento di una donna desiderata (il noto sonetto 4 che ha pure parti faticose e quasi grezze, ma ben deciso e sicuro nell’espressione della tensione amorosa che anzi si avvale di una minore scorrevolezza, di un attrito del linguaggio con la realtà che vuole esprimere[12]), sia che voglia dar voce al suo corruccio per la benevolenza sbagliata di Giulio II verso i nemici dell’artista (6), sia che si autoritragga nell’originale tono sarcastico-drammatico del sonetto sulla pittura della Sistina

(I’ ho già fatto un gozzo in questo stento

come fa l’acqua a’ gatti in Lombardia

o ver d’altro paese che si sia,

c’a forza ’l ventre appicca sotto ’l mento.

La barba al cielo, e la memoria sento

in sullo scrigno, e ’l petto fo d’arpia,

e ’l pennel sopra ’l viso tuttavia

mel fa, gocciando, un ricco pavimento.

E’ lombi entrati mi son nella peccia,

e fo del cul per contrapeso groppa,

e’ passi senza gli occhi muovo invano.

Dinanzi mi s’allunga la corteccia,

e per piegarsi adietro si ragroppa,

e tendomi com’arco sorïano.

Però fallace e strano

surge il iudizio che la mente porta,

ché mal si tra’ per cerbottana torta.

La mia pittura morta

difendi orma’, Giovanni, e ’l mio onore,

non sendo in loco bon, né io pittore. – 5),

dove la base della poesia burlesca quattrocentesca è superata dal maggiore sforzo creativo del risentimento (via ogni facile effetto di comicità) e dall’uso estremo delle immagini realistiche («e fo del cul per contrapeso groppa») in una via antiedonistica e antidescrittiva, violentemente espressiva. O sia che nel 10 condensi e trasformi echi di letture e di invettive dantesche e del Petrarca polemico contro l’avara Babilonia[13] in una nuovissima forma di linguaggio immaginoso-realistico con forme popolaresche e da prediche savonaroliane («ché n’andre’ ’l sangue suo ’nsin alle stelle», «e ’l sangue di Cristo si vend’a giumelle», «poscia c’a Roma gli vendon la pelle») che si avvale (non soffre) di crudezze di costruzione e di asprezza di suoni, di attrito con la realtà:

Qua si fa elmi di calici e spade

e ’l sangue di Cristo si vend’a giumelle,

e croce e spine son lance e rotelle,

e pur da Cristo pazïenzia cade.

Ma non ci arrivi piú ’n queste contrade,

ché n’andre’ ’l sangue suo ’nsin alle stelle,

poscia c’a Roma gli vendon la pelle,

e ècci d’ogni ben chiuso le strade.

S’i’ ebbi ma’ voglia a perder tesauro,

per ciò che qua opra da me è partita,

può quel nel manto che Medusa in Mauro;

ma se alto in cielo è povertà gradita,

qual fia di nostro stato il gran restauro,

s’un altro segno ammorza l’altra vita?

Una poesia di alto rovello morale ed espressivo che rifiuta ogni imitazione seguíta e ogni via di scorrevolezza e di eufonia e di decoro, in un assoluto bisogno di novità e di eccezionalità linguistica spregiudicatissima fino ad un ingorgo finale per troppa convergenza di elementi.

Sia infine che evochi, voce cupa e dolente, in un discorso lento e concentrato, scuro, con un che di arcaico e di grezzo, il motivo della sottomissione delle cose umane alla fortuna e alla morte

(Molti anni fassi qual felice, in una

brevissima ora si lamenta e dole;

o per famosa o per antica prole

altri s’inlustra, e ’n un momento imbruna.

Cosa mobil non è che sotto el sole

non vinca morte e cangi la fortuna. – 1),

o, riprendendo piú direttamente (21) le forme dei canti savonaroliani, evochi con ardire inventivo ed espressivo la voce dei morti che assicura i mortali del loro nascere per la morte, salendo da una sequenza nuda e lenta alla ferma e paurosa immagine conclusiva degli occhi:

Già fur gli occhi nostri interi

con la luce in ogni speco;

or son voti, orrendi e neri...[14].

La facoltà fantastica si sviluppa per intenso attrito con una base realistica sofferta (fra esperienza interiore e linguaggio) e i temi vengon come reinventati, riscoperti insieme alla loro direzione formale, in una zona di scoperta delle proprie qualità poetiche che può apparire insieme ancora scolastica, ma di cui invece bisogna soprattutto mettere in rilievo la novità e necessità di disposizione inventiva e di linguaggio sottratte in vari modi alle consonanze scolastiche piú facili. Cosí nel 20:

Tu ha’ ’l viso piú dolce che la sapa,

e passato vi par sú la lumaca,

tanto ben lustra, e piú bel c’una rapa;

e’ denti bianchi come pastinaca,

in modo tal che invaghiresti ’l papa;

e gli occhi del color dell’utriaca;

e’ cape’ bianchi e biondi piú che porri:

ond’io morrò, se tu non mi soccorri.

La tua bellezza par molto piú bella

che uomo che dipinto in chiesa sia:

la bocca tua mi par una scarsella

di fagiuo’ piena, sí com’è la mia;

le ciglia paion tinte alla padella

e torte piú c’un arco di Soría;

le gote ha’ rosse e bianche, quando stacci,

come fra cacio fresco e’ rosolacci.

Quand’io ti veggo, in su ciascuna poppa

mi paion duo cocomer in un sacco,

ond’io m’accendo tutto come stoppa,

bench’io sia dalla zappa rotto e stracco.

Pensa: s’avessi ancor la bella coppa,

ti seguirrei fra l’altre me’ c’un bracco:

di che s’i massi (?) aver fussi possibile,

io fare’ oggi qui cose incredibile.

In queste ottave, che riprendono almeno qualche rima della Nencia e a questa sono piú vicine (donde il rilievo della base laurenziana anche sulla via piú apertamente realistica e burlesca, e vi ricorrono immagini della Nencia prese di peso: «me’ ch’un bracco»), l’asprezza dei versi («bench’io sia dalla zappa rotto e stracco»), l’estremizzazione di immagini insolite («e gli occhi del color dell’utriaca») dànno luogo a una forma di risentimento inventivo-espressivo che non ha nulla del divertimento e della satira rusticale, nell’ardente intreccio platonico-antiplatonico di uno scandaglio e di una presa di coscienza della doppia dimensione della realtà: mai imitata, descritta o goduta edonisticamente (donde l’assenza di ogni vero sfondo di paesaggio), ma interpretata e risentita in rapporto a violenti moti interni dell’animo, a un drammatico risentimento irrequieto che la violenta e la deforma servendosi del suo attrito piú che della sua evidenza rappresentabile e oggettiva, degustabile e illustrabile.

Come coerentemente il linguaggio è violentemente espressivo, non mimetico, è materiale in tensione, non materia fredda e convenzionale. Cosí anche nella piú diretta tematica amorosa questa è risentita in tutta la sua ricchezza interna e nelle sue radici in piú drammatiche disposizioni di risentimento esistenziale, e il modulo di contrasto, ripreso dalla zona tardo quattrocentesca come fondamentale mezzo di forte rilievo poetico, è riattinto nelle sue scaturigini interne di conflitto interiore ed esistenziale ed è proposto in una delle prime rime (2) in tutto il suo nudo vigore, nella sua radice di tormento drammatico essenziale ad un sentimento della vita e dell’amore, senza idillio e senza edonismo:

Sol io ardendo all’ombra mi rimango

quand’el sol de’ suo razzi el mondo spoglia:

ogni altro per piacere, e io per doglia,

prostrato in terra, mi lamento e piango.

E se il madrigale 12

(Com’arò dunche ardire

senza vo’ ma’, mio ben, tenermi ’n vita,

s’io non posso al partir chiedervi aita?

Que’ singulti e que’ pianti e que’ sospiri

che ’l miser core voi accompagnorno,

madonna, duramente dimostrorno

la mia propinqua morte e’ miei martiri.

Ma se ver è che per assenzia mai

mia fedel servitú vadia in oblio,

il cor lasso con voi, che non è mio)

sembra accennare (come in una maggiore attrazione melodica iniziale di poesia per musica) ad un modulo piú armonico e con esito quasi cantato («il cor lasso con voi, che non è mio»), nei madrigali e sonetti amorosi di questa prima fase (7, 8, 11, 15, 17, 19) prevale nettamente (con espliciti richiami religiosi e inserimenti di tipiche espressioni da poesia spirituale come è il ritornello «oilmè, oilmè, oilmè» del 7[15]) un piú scoperto riferimento all’origine intera e drammatica del conflitto provocato dall’amore nell’animo, che oscilla fra il bisogno di un sicuro possesso di sé e una concessione forzata all’amore crudele che lo possiede contro sua voglia, turbandolo con la contraddizione fra la leggiadria dell’oggetto amato e l’esito di male che ne deriva

(D’un oggetto leggiadro e pellegrino,

d’un fonte di pietà nasce ’l mie male. – 16),

con la sua essenziale peccaminosità

(Crudele, acerbo e dispietato core,

vestito di dolcezza e d’amar pieno,

tuo fede al tempo nasce, e dura meno

c’al dolce verno non fa ciascun fiore.

Muovesi ’l tempo, e compartisce l’ore

al viver nostr’un pessimo veneno;

lu’ come falce e no’ siàn come fieno,

[...]

La fede è corta e la beltà non dura,

ma di par seco par che si consumi,

come ’l peccato tuo vuol de’ mie danni.

[...]

sempre fra noi fare’ con tutti gli anni. – 17),

con il suo contrastante effetto di ardore e ghiaccio

(Natura ogni valore

di donna o di donzella

fatto ha per imparare, insino a quella

c’oggi in un punto m’arde e ghiaccia el core.

Dunche nel mie dolore

non fu tristo uom piú mai;

l’angoscia e ’l pianto e ’guai,

a piú forte cagion maggiore effetto.

Cosí po’ nel diletto

non fu né fie di me nessun piú lieto. – 19).

Finché, recuperando il senso profondo della caducità che esplode ancor piú direttamente nel frammento in prosa 13 per le tombe medicee («La fama tiene gli epitaffi a giacere: non va né innanzi né indietro, perché son morti, e el loro operare è fermo», contro cui invano l’altro frammento 14 cerca una piú enfatica e malsicura «vendetta» della virtú umana sul «dí» e «la notte» come tempo edace privato anch’esso di luce), la canzone 22 (del 1524) raccoglie in uno svolgimento piú comprensivo e complesso tutti gli elementi dell’esperienza amorosa ed esistenziale in direzione di un aperto dramma spirituale e religioso (il pericolo supremo di una morte nel peccato e il senso dell’amore come alienazione di sé: «che de’ miei anni un’ora non m’è tocca»):

Che fie di me? che vo’ tu far di nuovo

d’un arso legno e d’un afflitto core?

Dimmelo un poco, Amore,

acciò che io sappi in che stato io mi truovo.

Gli anni del corso mio al segno sono,

come saetta c’al berzaglio è giunta,

onde si de’ quetar l’ardente foco.

E’ mie passati danni a te perdono,

cagion che ’l cor l’arme tu’ spezza e spunta,

c’amor per pruova in me non ha piú loco;

e s’e’ tuo colpi fussin nuovo gioco

agli occhi mei, al cor timido e molle,

vorria quel che già volle?

Ond’or ti vince e sprezza, e tu tel sai,

sol per aver men forza oggi che mai.

Tu speri forse per nuova beltate

tornarmi ’ndietro al periglioso impaccio,

ove ’l piú saggio assai men si difende:

piú corto è ’l mal nella piú lunga etate,

ond’io sarò come nel foco el ghiaccio,

che si distrugge e parte e non s’accende.

La morte in questa età sol ne difende

dal fiero braccio e da’ pungenti strali,

cagion di tanti mali,

che non perdona a condizion nessuna,

né a loco, né tempo, né fortuna.

L’anima mia, che con la morte parla,

e seco di se stessa si consiglia,

e di nuovi sospetti ognor s’attrista,

el corpo di dí in dí spera lasciarla:

onde l’immaginato cammin piglia,

di speranza e timor confusa e mista.

Ahi, Amor, come se’ pronto in vista,

temerario, audace, armato e forte!

che e’ pensier della morte

nel tempo suo di me discacci fori,

per trar d’un arbor secco fronde e fiori.

Che poss’io piú? che debb’io? Nel tuo regno

non ha’ tu tutto el tempo mio passato,

che de’ mia anni un’ora non m’è tocca?

Qual inganno, qual forza o qual ingegno

tornar mi puote a te, signore ingrato,

c’al cuor la morte e pietà porti in bocca?

Ben sare’ ingrata e sciocca

l’alma risuscitata, e senza stima,

tornare a quel che gli diè morte prima.

Ogni nato la terra in breve aspetta;

d’ora in or manca ogni mortal bellezza:

chi ama, il vedo, e’ non si può po’ sciorre.

Col gran peccato la crudel vendetta

insieme vanno; e quel che men s’apprezza,

colui è sol c’a piú suo mal piú corre.

A che mi vuo’ tu porre,

che ’l dí ultimo buon, che mi bisogna,

sie quel del danno e quel della vergogna?

Nel 31-32 poi si concentra il nucleo piú denso di un «tormento» che porta «vita e morte intera» e che, su di una prospettiva esistenziale desolata («qua dove non è mai bene»), si rivela come una sorte non rinunciabile in una specie di crucciata voluttà del dolore («vo cercando il dolor con maggior pene») e pur richiama alla dimensione superiore e religiosa dell’amore come peccato personale di chi si priva della grazia divina:

Amor non già, ma gli occhi mei son quegli

che ne’ tuo soli e begli

e vita e morte intera trovato hanno.

Tante meno m’offende e preme ’l danno,

piú mi distrugge e cuoce;

dall’altra ancor mi nuoce

tante amor piú quante piú grazia truovo.

Mentre ch’io penso e pruovo

il male, el ben mi cresce in un momento.

O nuovo e stran tormento!

Però non mi sgomento:

s’aver miseria e stento

è dolce qua dove non è ma’ bene,

vo cercando ’l dolor con maggior pene (31).

Vivo al peccato, a me morendo vivo;

vita già mia non son, ma del peccato:

mie ben dal ciel, mie mal da me m’è dato,

dal mie sciolto voler, di ch’io son privo.

Serva mia libertà, mortal mie divo

a me s’è fatto. O infelice stato!

a che miseria, a che viver son nato! (32).

Come si vede, il centro motore della poesia michelangiolesca è un contrasto drammatico che impegna tutta la personalità dell’artista, sicché è certamente errato risolvere l’attività delle rime in un furore di esercizio e di sperimentazione di linguaggio senza intenderne e rilevarne (sino al rischio dello psicologismo alla fine, a suo modo, salutare di fronte a soluzioni solamente stilistiche) la necessità e l’intrecciatissimo sgorgo interiore: né l’intreccio e le apparenti contraddizioni possono giustificare un piano di considerazioni che recida i legami fra situazioni interne e singoli componimenti e porti a ricercare una pura dialettica di antitesi metaforiche fisse e variate solo per esigenze di effetti di stile senza storia. E tanto piú ciò in questa prima zona in cui l’impegno interiore è tanto piú evidente e l’irrequietezza interna e la tensione espressiva si congiungono con una novità piú esplosiva e tentante fino al rischio di maggiore incompiutezza (non tanto per inesperienza quanto per spregiudicatezza e bisogno di segnare i punti essenziali e centrali), di certo abbandono di componimenti interrotti.

Né volubilità dilettantesca, né incertezza di un semplice apprendista, né disposizione di uno stilista sperimentatore su temi fissi ed astorici, ma invece profonda ricchezza e complessità di questi e delle loro implicazioni personali e storiche, in un movimento continuo e crescente che arricchisce enormemente la profondità interna delle stesse soluzioni figurative fra la Sistina, le tombe medicee, il Giudizio Universale.

Sensualità ardente e senso del peccato, spinta platonica e sua accezione drammatica complicata dal sentimento di una vita scissa e in crisi, di una caducità che cerca faticosamente valori divini riflessi nella vita e ne scopre alla fine la falsità di fronte alla pura dimensione del divino e dell’assoluto, e infine scontentezza o incapacità a vivere solo in questa e doloroso riimmergersi nell’attrito della vita e della realtà: e tutto animato da questa potente molla del contrasto espresso dall’interno di una eccezionale densità di sensibilità e fisicità, non semplicemente astratto in una conoscenza ferma delle «coppie metaforiche» del mondo[16], che abolirebbe o cristallizzerebbe il dramma e svuoterebbe la ragione interna suscitatrice di energia espressiva, di tensione inesausta. Anzi questa tensione, questo involgersi nella volontà di una soluzione assoluta, mai attinta se non in forza degli atti estetici creativi, questo «di piú» sempre come meta sfuggente, son pure essenziali a capire le stesse rime, piú che come variazioni di un tema fisso, come ripresa e svolgimento ossessivo, ma effettivo di una vita interna in continuo divenire drammatico. Ed è la tensione a un piú che estetico, a un piú che bello, che (mentre rafforza il rifiuto dell’idillio, del facile, dell’edonistico, del facilmente compiuto e armonizzato ed eufonico) motiva le ragioni di una poetica del difficile, dell’arduo, e la stessa forza delle antitesi e dei procedimenti concettistici-metaforici all’estremo del loro impiego piú «virtuosistico» mai privo del tutto di una base generale, magari piú indiretta e rarefatta, ma mai del tutto assente.

Ma se, come ho detto, nella zona centrale delle rime (quando le esigenze tecniche saranno piú sicure e raggiungeranno forme di organizzazione dei componimenti piú stabili e fortemente concettistiche) la stessa maggiore unitarietà della tecnica e della poetica condurrà ad un esercizio poetico piú stretto intorno alle punte estreme e divenute piú emblematiche della fusione fra termini essenziali del dramma interno e loro mezzi espressivi concettistici e antitetici, in questa lunga zona iniziale tutto è piú scoperto e insieme ci insegna a guardar meglio sotto l’arduo giuoco stilistico e persino ai suoi aspetti e momenti piú virtuosistici per riscoprirvi le ragioni interne e il nesso di consolidamento di questo piú irrequieto, scoperto e insieme scandibile esprimersi di tensioni interne in forte movimento non prive certo di legami con occasioni e vicende, e il loro corrispettivo di esperienza sofferta, di meditazione, di nuova tensione.

Cosí, le vicende dell’assedio fiorentino sembrano suscitare anzitutto la formidabile rivincita morale del frammento 48 (certo fra i versi piú alti che Michelangelo abbia mai scritto e quasi alto emblema della sua strenua volontà eroica di offeso, di frustrato nei propri ideali e nella sua stessa aspirazione dantesca[17]:

Come fiamma piú cresce piú contesa

dal vento, ogni virtú che ’l cielo esalta

tanto piú splende quant’è piú offesa,

dove tensione morale e tensione espressiva e fantastica fanno tutt’uno in un singolare equilibrio tensivo di immagini e di tema poetico) e, magari, quel singolare tentativo di apparente idillio campestre e rusticale (le ottave del 67 con il loro inizio di vaga consonanza polizianesca[18] subito arricchito con echi della Nencia[19] e con un maggiore attrito realistico) che si svolge poi in figurazioni sdegnate dei vizi specie della «corte» e delle sue «opre orrende» (i dubbi, le ambagi di una falsa scienza di comportamento diplomatico, la falsità e ipocrisia «ch’a iusti sol fa guerra», l’adulazione) in contrasto con il rifugio della verità e della fede fra la «gente umil». Ma esse provocano, soprattutto, un piú intenso, acceso ripiegamento del poeta in se stesso e nello scandaglio doloroso del senso della propria vita (cosí forte, nel 51, il senso del «tempo perso»: «Oilmè, oilmè, pur riterando / vo’ il mio passato tempo e non ritruovo / in tutto un giorno che sie stato mio!»; cosí forte, nel 70[20], la coscienza della situazione drammatica della propria volontà dominata dalle passioni e che lo fa un «nemico di me stesso»; cosí forte, nel 66, il senso della lontananza da Dio, «sí presso a morte e sí lontan da Dio», quel Dio a cui si rivolge, sul solito piano assoluto, l’affermazione «Tu sol se’ buon»), e una piú accesa tensione di amore platonico come compenso in alte vicende di amicizia e di amore (i due termini continuamente si confondono nell’intenso affetto per le persone eccezionali per bellezza e virtú colorandosi di accenti passionali).

Tensione accentuata anche dalla vicenda sofferta della morte dell’amatissimo fratello Buonarroto nel ’28 ( si vedano in proposito le terzine del 45 e il noto sonetto 46). In un mondo cosí povero di virtú e cosí battuto dagli eventi storici, Michelangelo tanto piú sente il valore di un compenso nell’unione con «spiriti ben nati», nell’amore spirituale, unica via «mondana» verso il divino. Si vedano in proposito i sonetti, di poco precedenti, 37, 38, 39, 41, 42[21] (chiarissimi nella giustificazione morale e mondana-religiosa dell’amore spirituale) e poi, dopo il rinforzo piú sensuale e fisico della forza d’amore nelle ottave del 54 (con il nuovo impiego di una forma fortemente realistica a rinforzare il linguaggio e l’espressione contro certo pericolo di astrattezza platonica[22]), i piú sicuri sonetti per il Cavalieri.

È questa certo la zona in cui il platonismo amoroso è piú direttamente usufruito come motivo centrale della poesia michelangiolesca ed esso permette una maggiore costanza anche nella direzione dell’impegno tecnico-stilistico, che in questa fase (come è stato giustamente osservato) assume una maggiore consapevolezza di poetica, una maggiore continuità e uniformità, e tanto piú allontana l’immagine di un Michelangelo dilettante sprovveduto e inesperto, e oscillante perciò fra rozzezza e artificio.

E quell’impegno comporta ora una piú precisa ricerca di singolare misura compositiva, realizzata nel metro del sonetto, poi in quello piú libero e articolabile del madrigale. In questa fase il sonetto offre una possibilità di maggiore delimitazione compositiva entro cui si muovono le varie situazioni interne, espresse al solito senza ricorso a sfondo e ad appoggio di paesaggio (rifiuto ben significativo di una poesia che si vieta ogni alleggerimento descrittivo e ogni espansione esterna, tutta tesa com’è a sottolineare energicamente colloqui, meditazioni, prese di coscienza interiori), e comporta insieme come una maggior fiducia nel valore del profilarsi della poesia come svolgimento sostanziale di un concetto: donde la forma prevalente delle aperture ipotetiche[23] e delle chiuse conclusive e affermative di una verità raggiunta nell’iter del sonetto; fino alla costruzione intera sorretta dai «se» che guida all’affermazione conclusiva, nel 59:

S’un casto amor, s’una pietà superna,

s’una fortuna infra due amanti equale,

s’un’aspra sorte all’un dell’altro cale,

s’un spirto, s’un voler due cor governa;

s’un’anima in duo corpi è fatta etterna,

ambo levando al ciel e con pari ale;

s’Amor d’un colpo e d’un dorato strale

le viscer di duo petti arda e discerna;

s’amar l’un l’altro e nessun se medesmo,

d’un gusto e d’un diletto, a tal mercede

c’a un fin voglia l’uno e l’altro porre:

se mille e mille, non sarien centesmo

a tal nodo d’amore, a tanta fede;

e sol l’isdegno il può rompere e sciorre.

Profilo e plasticità concettistica di una situazione dell’animo indagata ed evidenziata che non annulla però (malgrado questa fuga dalle «occasioni» piú precisabili biograficamente[24] e questa indagine assoluta di un’essenziale vita dell’animo, nei confronti dell’amore, tanto meno romanzabile della storia esemplare del Petrarca e dei petrarchisti ad essa piú legati) il fatto fondamentale che anche la prospettiva platonica tesa a risultati spirituali positivi (unione dell’amante all’amato come via mondana a Dio) e rafforzante una forma piú emblematica-concettistica legata al rilievo del concetto e dei suoi termini fondamentali (morte-vita, ardore-ghiaccio, luce-tenebre, foco-cenere ecc.) è effettivamente immersa pur sempre in una dialettica interiore ed espressiva di tipo drammatico, si esercita in un attrito con una piú densa realtà interiore, ben lontana dalla possibilità di soluzione e di armonia rinascimentale del Bembo e del Castiglione. Ed è controbilanciata e insieme tesa dal sentimento contrastante di una unione che svuota di autopossesso l’amante, e dà un senso di sfiducia nelle effettive possibilità positive, rivelando a tratti il segno peccaminoso dell’amore mondano, spiritualizzato, ma intriso di quella sensibilità passionale che è d’altra parte l’inevitabile segno di un impegno amoroso di tutta la persona, che gode del suo stesso tormento come prova di un’adesione amorosa non superficiale e volgare.

Donde quegli ardenti squarci nel tessuto dell’amore platonico con il diretto rivolgersi a Dio e il prospettargli il dramma della propria contrastante volontà: come il grande sonetto 87 in cui gli emblemi del contrasto amoroso vengono adibiti al contrasto dell’animo in rapporto alla sua vocazione religiosa e la tecnica delle antitesi viene esaltata alla sua funzione piú drammatica e pregnante:

Vorrei voler, Signor, quel ch’io non voglio:

tra ’l foco e ’l cor di ghiaccia un vel s’asconde

che ’l foco ammorza, onde non corrisponde

la penna all’opre, e fa bugiardo ’l foglio.

I’ t’amo con la lingua, e poi mi doglio

c’amor non giunge al cor; né so ben onde

apra l’uscio alla grazia che s’infonde

nel cor, che scacci ogni spietato orgoglio.

Squarcia ’l vel tu, Signor, rompi quel muro

che con la sua durezza ne ritarda

il sol della tuo luce, al mondo spenta!

Manda ’l preditto lume a noi venturo,

alla tua bella sposa, acciò ch’io arda

il cor senz’alcun dubbio, e te sol senta.

Sí che gli stessi esiti positivi dell’amor platonico attingono la loro maggiore forza e misura in tensione quando piú fortemente risalgono da queste interne alternanze drammatiche e vincono cosí il pericolo di una disposizione di estasi facile e di una certa astrattezza piú filosofica e contemplativa, con un piú denso e calcolato impiego dei termini antitetici che lasciano sempre un margine di «di piú» ed un ideale aggancio ad altre espressioni. Come si può constatare nell’83 piú disteso e sicuro,

Veggio nel tuo bel viso, signor mio,

quel che narrar mal puossi in questa vita:

l’anima, della carne ancor vestita,

con esso è già piú volte ascesa a Dio.

E se ’l vulgo malvagio, isciocco e rio,

di quel che sente, altrui segna e addita,

non è l’intensa voglia men gradita,

l’amor, la fede e l’onesto desio.

A quel pietoso fonte, onde siàn tutti,

s’assembra ogni beltà che qua si vede

piú c’altra cosa alle persone accorte;

né altro saggio abbiàn né altri frutti

del cielo in terra; e chi v’ama con fede

trascende a Dio e fa dolce la morte;

e nell’89 piú complicato e piú intenso,

Veggio co’ be’ vostr’occhi un dolce lume

che co’ mie ciechi già veder non posso;

porto co’ vostri piedi un pondo addosso,

che de’ mie zoppi non è già costume.

Volo con le vostr’ale senza piume;

col vostro ingegno al ciel sempre son mosso;

dal vostro arbitrio son pallido e rosso,

freddo al sol, caldo alle piú fredde brume.

Nel voler vostro è sol la voglia mia,

i miei pensier nel vostro cor si fanno,

nel vostro fiato son le mie parole.

Come luna da sé sol par ch’io sia,

ché gli occhi nostri in ciel veder non sanno

se non quel tanto che n’accende il sole;

e ancora nel 90:

I’ mi son caro assai piú ch’i’ non soglio;

poi ch’i’ t’ebbi nel cor piú di me vaglio,

come pietra c’aggiuntovi l’intaglio

è di piú pregio che ’l suo primo scoglio.

O come scritta o pinta carta o foglio

piú si riguarda d’ogni straccio o taglio,

tal di me fo, da po’ ch’i’ fu’ berzaglio

segnato dal tuo viso, e non mi doglio.

Sicur con tale stampa in ogni loco

vo, come quel c’ha incanti o arme seco,

c’ogni periglio gli fan venir meno.

I’ vaglio contr’a l’acqua e contr’al foco,

col segno tuo rallumino ogni cieco,

e col mie sputo sano ogni veleno.

Questi termini emblematici piú riassuntivi e compendiosi (notte-sole, ad esempio) valgono poeticamente non come segni estremi riduttivi di una fissa e monotona situazione senza movimento, ma in quanto si caricano di diverse disposizioni tensive interne e insieme suscitano, provocano l’erompere di sentimenti e meditazioni poetiche a livello piú profondo. Cosí come l’arduo giuoco concettistico, che può giungere a limiti di piú aperto virtuosismo e di eccessiva fiducia nella poetica del mirabile, dell’inatteso, dell’ingegnoso (fino ad anticipi di manierismo e di prebarocco[25] proprio nel senso di piú lambiccate e autonome trovate), raramente però resta isolato e slegato da ragioni e possibilità piú poetiche. Sicché, proprio verso il termine di questa fase, nelle piú concettistiche poesie per Febo da Poggio, il giuoco su sole e notte provoca quattro sonetti su questo tema, che, legati inizialmente e alla fine ricongiunti al nome dell’amato, insistono con compiacimento ingegnoso sul valore e disvalore della notte, sull’errore e sulla giustezza di chi la loda.

L’origine della serie è chiaramente ingegnosa (e segna un pericoloso avvio di una piú scoperta e autonomizzabile poetica del difficile, del mirabile e sottile), ma al centro ne emerge il sonetto 102, «O notte, o dolce tempo, benché nero», che non può in alcun modo venire svalutato da tale origine, carico com’è (e insieme proprio meno lucido e compiuto di certi componimenti veramente virtuosistici) di un sentimento poetico che si traduce nel ritmo stanco e rotto, malinconico e ricco di conflati di esperienza dolorosa della vita e di aspirazioni ad una dimensione senza pene ed affanni:

O notte, o dolce tempo, benché nero,

con pace ogn’opra sempr’al fin assalta;

ben vede e ben intende chi t’esalta,

e chi t’onor’ha l’intelletto intero.

Tu mozzi e tronchi ogni stanco pensiero

che l’umid’ombra e ogni quiet’appalta,

e dall’infima parte alla piú alta

in sogno spesso porti, ov’ire spero.

O ombra del morir, per cui si ferma

ogni miseria a l’alma, al cor nemica,

ultimo delli afflitti e buon rimedio;

tu rendi sana nostra carn’inferma,

rasciughi i pianti e posi ogni fatica,

e furi a chi ben vive ogn’ira e tedio.

L’impegno della dimostrazione e dell’elogio ingegnoso è in realtà internamente (e non dunque malgrado, ma dentro quel piú largo impegno ingegnoso) sopraffatto da un immedesimarsi del poeta con una forte situazione sofferta e poeticamente valida, e a sua volta il giuoco concettistico se ne arricchisce anche nel suo seguito (le notti «sante» del 103, la congenialità nativa del poeta col «tempo bruno» nel 104), mostrando la sua singolare fertilità e, se si vuole, fertile ambiguità, sí che difficilmente può risolversi totalmente in giuoco e artificio, pur indicando indubbiamente un pericolo della lirica michelangiolesca proprio nelle zone piú mature e artisticamente impegnative e una specie di pericolo di deviazione della poesia dalla maggiore pienezza e decisività della attività figurativa (in cui alcune velleità piú bizzarre come quella dell’immaginato campanile di San Lorenzo rimasero appunto allo stato di velleità e piuttosto di parodia delle singolari richieste del papa Clemente VII[26]).

III.

La poetica del difficile, del concettoso, del singolare, trova poi un suo piú impegnativo sviluppo nella fase centrale dell’attività poetica michelangiolesca dopo il ’34 circa e fin verso il ’43-44: date approssimative ma certo orientative per un periodo che biograficamente vede l’intreccio dell’amore-amicizia per il Cavalieri, gli inizi della amicizia per la Colonna e la maggior apertura di Michelangelo a un cerchio di amici, fiorentini e romani, con maggiori rapporti con musicisti come l’Arcadelt. Un periodo che vede lentamente riprendere (e le rime in parte ne risentiranno) una rinnovata tensione platonica-religiosa, fortemente complicata da riaccensioni di amore passionale e «crudele», certamente contraddistinta da un’operosità poetica assai continua e unificata da elementi di poetica, con i suoi corrispettivi di tecnica e persino di metrica, in cui prevale nettamente la scelta del madrigale in una sua forma assai libera e varia di articolazione e lunghezza, mal configurabile in un’adesione a un preciso strumento convenzionale, in una specie di incontro di libertà inventiva e di misura piú costante coerente (e qui valgono molte delle osservazioni del Girardi e del De Vecchi che su questo argomento hanno portato notevole illuminazione) a un bisogno interno di complessità articolata e delimitata, in cui il dramma di base si esplica e si contiene nelle sue tensioni e nella novità delle sue impostazioni e variazioni.

Sí che certo questa fase può indicarsi come la piú artisticamente e consapevolmente elaborata, senza con ciò attribuire ad essa una totale maggiore validità poetica e una assoluta esemplarità del fare poetico michelangiolesco, in realtà piú vario e piú ricco di atteggiamenti e di vie espressive.

Al solito la ricerca poetica di Michelangelo scarta risolutamente le attrazioni dell’edonismo idillico-elegiaco, del colorismo paesaggistico, del pieno sfocio musicale della parola, l’impasto piú solito e per lo piú edonistico, nel petrarchismo, di gravità-piacevolezza. E il madrigale (di cui egli ben sa la ideale destinazione alla utilizzazione cantabile) è pur sempre da lui concepito come strumento espressivo di un dramma interiore, vietandosi insieme quella lieve sfumatura melodrammatica e sorridente che corona il piú aperto impiego di concettismo in molti prodotti madrigalistici rinascimentali (si pensi all’Ariosto e al suo madrigale su amore e morte:

Fingon costor che parlan de la morte

un’effigie ad udirla troppo ria,

ed io che so che di summa bellezza,

per mia felice sorte,

a poco a poco nascerà la mia,

colma d’ogni dolcezza,

sí bella me la formo nel disio,

che ’l pregio d’ogni vita è il morir mio).

Ma certo, tutto sommato, è pur in questa zona madrigalistica che il gusto del contrappunto e dell’intreccio concettistico si fa piú evidente e piú chiaro è l’impegno dell’«artista», consapevole della sua capacità inventiva e creativa[27], in una resa piú sicura e sicuramente articolata del concetto poetico fino a forme di maggiore equilibrio compositivo.

Si veda il 107 (apertura di questa fase che comprende piú di sessanta madrigali intervallati da non piú di quattro sonetti), esemplare per questa maggiore ricerca di misura e articolazione, di corrispondenza fra inizio ed esito dell’intreccio interno:

Gli occhi mie vaghi delle cose belle

e l’alma insieme della suo salute

non hanno altra virtute

c’ascenda al ciel, che mirar tutte quelle.

Dalle piú alte stelle

discende uno splendore

che ’l desir tira a quelle,

e qui si chiama amore.

Né altro ha il gentil core

che l’innamori e arda, e che ’l consigli,

c’un volto che negli occhi lor somigli.

O si veda il 112 in cui l’intreccio di amore e crudeltà, del desiderio di morte e dell’immagine della donna che la impedisce, è condotto fino all’esito finale con abilità, chiarezza di articolazione e sicurezza di elaborazione:

Il mio refugio e ’l mio ultimo scampo

qual piú sicuro è, che non sia men forte

che ’l pianger e ’l pregar? e non m’aita.

Amore e crudeltà m’han posto il campo:

l’un s’arma di pietà, l’altro di morte;

questa n’ancide, e l’altra tien in vita.

Cosí l’alma impedita

del mio morir, che sol poria giovarne,

piú volte per andarne

s’è mossa là dov’esser sempre spera,

dov’è beltà sol fuor di donna altiera;

ma l’immagine vera,

della qual vivo, allor risorge al core,

perché da morte non sia vinto amore.

L’artista si avvale – sulla base essenziale dello svolgimento del concetto – del giuoco delle rime e delle assonanze («cede» – «gode» – «vede» – «ode» nel 109), dell’intensificazione di parole-rima ripetute all’interno di un verso («s’io l’amo e bramo e chiamo a tutte l’ore», 117) o ossessivamente addensate nel finale

(Altro refugio o via

mie vita non iscampa

dal suo morir, c’un aspra e crudel morte;

né contr’a morte è forte

altro che morte, sí c’ogn’altra aita

è doppia morte a chi per morte ha vita. – 118),

della simmetria di costruzioni negative («Come non puoi non esser cosa bella / esser non puoi che pietosa non sia; / sendo po’ tutta mia / non puo’ poter non mi distrugga e stempre», 121), della centralità dell’antitesi verbale-concettuale («dolce pietà, con dispietato core», 119), mentre nella serialità dei componimenti l’avvio di un nuovo componimento è offerto per ripresa (127-128) o per antitesi dal concetto del componimento precedente (130-131).

E si avverte che l’artista ha questa volta cercato una espressione variata, ma il piú possibile completa del suo dramma amoroso, scandagliandone ed evidenziandone tutte le possibili situazioni entro una poetica del singolare, dell’ingegnoso e del difficile di cui non può dimenticarsi l’origine piú intensa di necessaria eccezionalità spirituale ed espressiva, ma che certo piú conduce al limite di una eccezionale abilità e di un eccesso concettistico di sapore addirittura prebarocco. Il quale non si allenta ma si alimenta piú internamente e poeticamente quando alla base amorosa (che pur ha una sua tensione, nemica del «mezzo» e meglio espressa quanto piú il concettismo si avvale di un linguaggio aspro, risentito, di ascendenza petrosa)[28] si riconnette la piú profonda drammaticità della crisi esistenziale ed etico-religiosa di Michelangelo, che riaffiora, sollecitata anche dagli inizi della vicinanza della Colonna (tanto piú chiara poi in una zona successiva), anche entro il madrigalismo, tanto piú limitandone certa attrazione ad un finito piú lucido e a quell’eccesso di virtuosismo che tende spesso a superare piú autonomamente le proprie ragioni interne.

Come avviene (con un ingorgo forte di elementi di amore crudele, di sentimento della vecchiaia, del peso della carne vecchia e stanca e della vicinanza della morte, della invidia dei morti, dell’invocazione alla gratuita misericordia divina[29]) in componimenti come il 161:

Per qual mordace lima

discresce e manca ognor tuo stanca spoglia,

anima inferma? or quando fie ti scioglia

da quella il tempo, e torni ov’eri, in cielo,

candida e lieta prima,

deposto il periglioso e mortal velo?

C’ancor ch’i’ cangi ’l pelo

per gli ultim’anni e corti,

cangiar non posso il vecchio mie antico uso,

che con piú giorni piú mi sforza e preme.

Amore, a te nol celo,

ch’i’ porto invidia a’ morti,

sbigottito e confuso,

sí di sé meco l’alma trema e teme.

Signor, nell’ore streme,

stendi ver’ me le tuo pietose braccia,

tomm’a me stesso e famm’un che ti piaccia.

IV.

È degli anni 1543-1544 un gruppo di componimenti (177-228) che piú fortemente autorizza a rilevare, dopo la lunga zona centrale, una fase estremamente pericolosa (e pur non priva di fascino e di poesia), di virtuosismo concettistico e metaforico piú legato in superficie a doveri di convenienza e di rapporti amichevoli (richieste di componimenti poetici per un’occasione luttuosa e persino incoraggianti alla loro produzione con doni mangerecci sul cui incontro con le rime Michelangelo intesse battute ironiche che formano come un macabro-burlesco scherzo intorno all’occasione funebre[30]) e a una specie di gara di abilità e di fecondità inesauribile di variazioni nuove e singolari su di un tema costante: aspetto esterno ed estremo di un bisogno di vera originalità che è invece fondamentale nella poesia michelangiolesca.

La fase si apre con una quartina (la forma poi adottata, con due sole eccezioni, nella lunga serie relativa alla morte di Cecchino Bracci) e un sonetto (178) che ricavano dalla morte della signora Fausta Mancini un epitaffio e la scusa di non poter dipingerne o scolpirne l’immagine. L’epitaffio, aperto da due versi assai belli («In noi vive e qui giace la divina / beltà da morte anz’il suo tempo offesa»), si inarca in una trovata giuocata sul cognome della donna:

Se con la dritta man face’ difesa

campava. Onde nol fe’? Ch’era mancina.

Dove si tocca veramente il malgusto e la freddura che poi ritornano nella parentesi della prima quartina del sonetto

(suo nome dal sinistro braccio tiello

il vulgo, cieco a non adorar lei)

che sciupa irrimediabilmente il contesto di apertura che sembra promettere tutt’altro:

La nuova alta beltà che ’n ciel terrei

unica, non c’al mondo iniquo e fello...

Il virtuosismo prende la mano a Michelangelo e l’alta trama concettistica supera ogni vera funzione poetica, indicando il punto estremo e il pericolo insito nella esasperata ricerca tecnico-artistica di una poetica del difficile e del complesso portata qui al suo esito miracolistico e prebarocco (e si intende del barocco piú a gara di abilità, non di quello grave di tensione a cui Michelangelo sembra portare avvii in zone piú dense e sostanziose).

Su questa apertura si intona la lunga serie degli epigrammi per la morte di Cecchino Bracci, il giovanissimo nipote del Del Riccio, a cui lo stesso Michelangelo era affettuosamente legato.

E basterà coglierne qualche punta estrema di giuoco nominalistico

(Qui son de’ Bracci, deboli a l’impresa

contr’a la morte mia per non morire;

meglio era esser de’ piedi per fuggire

che de’ Bracci e non far da lei difesa. – 184)

o di giuoco sulla parola in rima

(Gran ventura qui morto esser mi veggio:

tal dota ebbi dal cielo, anzi che veglio;

ché, non possendo, al mondo darmi meglio,

ogni altro che la morte era il mie peggio. – 196)

o di contrasto su apparenza e realtà della condizione di morto attraverso il concetto, preso come vero, delle mille anime di amanti che Cecchino aveva raccolto in sé:

Qui son morto creduto; e per conforto

del mondo vissi, e con mille alme in seno

di veri amanti; adunche a venir meno,

per tormen’ una sola non son morto (190).

Eppure, a rileggere tutta la serie e a rilevarne altri componimenti per singoli versi o per l’insieme, si avverte come, anche in questa disposizione ambigua e «virtuosistica» per eccesso di uso di moduli antitetici e concettistici, una pressione poetica piú interna non manchi e come lo stesso arduo attrito concettistico faccia affiorare i suoi elementi di base non assenti neppure nelle forme piú giuocate e lambiccate, con il loro esito irritante, ma mai banale:

c’uom morto non risurge a primavera (199);

po’ c’allor nacqui ove la morte muore (201);

morte l’ancise senza spada o ferro

c’un fior di verno picciol vento il fura (218);

Per sempre a morte, e prima a voi fu’ dato

sol per un’ora; e con diletto tanto

porta’ bellezza, e po’ lasciai tal pianto

che ’l me’ sarebbe non esser ma’ nato (207);

La carne terra, e qui l’ossa mie, prive

de’ lor begli occhi e del leggiadro aspetto,

fan fede a quel ch’i’ fu’ grazia e diletto

in che carcer quaggiú l’anima vive (197).

Sentimento della caducità, ossessione del pensiero della morte, tensione al superamento in una dimensione di vita senza morte, elementi di una meditazione esistenziale sempre assidua[31], si sviluppano in questa singolare serie e una aura funeraria increspata di ambigui elementi di turbato platonismo viene pure a costituirsi dalla lettura continua e consapevole di questa dimensione complicata, difficile, spia di una complessità e ambiguità pur sempre originale.

Ma certo questa era una esperienza estrema da superare per recuperare un terreno piú sostanzioso. Ed anzi si può dire che questo sforzo di concettismo e virtuosismo, nella sua prospettiva di inesauribilità e di moltiplicazione ad libitum, serví a Michelangelo per rafforzare a contrario la ricerca di una maggiore centralità e di una maggiore funzionalità espressiva dei mezzi stilistici cosí strenuamente e quasi assurdamente sperimentati. Ed è proprio nelle zone successive che potrà cogliersi una progressiva svolta di poetica e di poesia.

V.

Nella lata zona cronologica vicina alla serie per Cecchino Bracci e fino alla morte della Colonna si situa una nuova complessa produzione di rime (sonetti e madrigali) in cui si affaccia piú vigorosamente il tema della vecchiaia che dovrebbe terminare le pene amorose e in cui viceversa queste divengono piú amare e cocenti. Esse dovrebbero ormai cedere al pentimento dei propri peccati, mentre, entro questo sofferto limite incalzante del tempo, che intensifica l’espressione tormentata e ansiosa dell’animo in contrasto, il platonismo fa le sue ultime e supreme prove assicurando il poeta della altezza e nobiltà del suo amore, della letizia e beatitudine del perdersi della individualità dell’amante nella tensione alla persona amata[32], a cui corrisponde una piú esplicita coscienza aristocratica della rarità dei veri «amici», delle persone nobili ed esemplari. Siano esse il Cavalieri, la Colonna o lo stesso Dante che assume (in coincidenza con le meditazioni e i ragionamenti danteschi dei Dialoghi del Giannotti) un chiaro aspetto di poeta-uomo, guida ed esempio poetico e morale di impareggiabile altezza[33].

E certamente in questa zona gli echi danteschi si moltiplicano o in forma diretta o quasi diretta e in stimoli di linguaggio ben visibili: dalla citazione di un verso del Paradiso XXIX 91, «Non vi si pensa quanto sangue costa», scritto sul troncone della croce di una Pietà fatta per Vittoria Colonna e oggi perduta, alla ripresa nel verso 4 del 231[34], «che ’l tempo perso, a chi men n’ha, piú duole», del verso dantesco «che ’l perder tempo a chi piú sa piú spiace», a quello «un spirto in carne involto» (264), che richiama il dantesco dell’XI del Paradiso, «chi nel diletto della carne involto», o il «sott’un candido velo» e il «mal si rimborsa il cielo» (265); o il finale del 259, «che per cangiar di scorza o d’ora strema / non manca, e qui caparra il paradiso», fino alle frequenti riprese dal Dante petroso: il giuoco sulla parola petra e l’inizio del madrigale 263, «La nuova beltà d’una / mi sprona, sfrena e sferza; / né sol passata è terza, / ma nona e vespro...», e il giuoco di rime rare «erto o arto-comparto-parto» del 258, sulla via già altamente esercitata nel 172 di poco precedente. E Dante diviene, ripeto, non solo termine alto e ardentemente vagheggiato di una assimilazione eroica di se stesso nel contrasto col mondo e coi tempi (non per caso il 248 e il 250[35] dedicati a Dante, che puntano sull’ingratitudine del mondo e della fortuna di fronte ai «piú perfetti» del popolo fiorentino «che solo a’ iusti manca di salute», sono vicini alla quartina sulla notte «mentre che ’l danno e la vergogna dura»[36], che cosí acquista tanto maggiore significato storico-personale, e al madrigale 249[37]), ma esempio di una poesia di verità che tanto piú chiaramente tende all’energico, al deciso, al volitivo, che si riflettono nella maggior perentorietà e sicurezza delle dimostrazioni poetiche del significato dell’amore spirituale

(c’amor vuol sol gli amici, onde son rari,

di fortuna e virtú simili e pari. – 252

L’un tira al cielo, e l’altro in terra tira;

nell’alma l’un, l’altr’abita ne’ sensi,

e l’arco tira a cose basse e vile. – 260

le voglie inique e prave

mi vieta, e là mi tira,

già stanco e vil, fra’ rari e semidei. – 254),

nella forza del giudizio negativo del mondo e del tempo

(Se po’ ’l tempo ingiurioso, aspro e villano

la rompe o storce o del tutto dismembra, – 237),

nelle indicazioni stesse del valore alto dell’arte che resiste al tempo (240), nello stesso sviluppo ed esito dei contrasti che tormentano il vecchio poeta, divenuto già chiaro, e chiaramente ed energicamente rilevato:

Né per questo mi lassa

Amor viver un’ora

fra duo perigli, ond’io mi dormo e veglio:

la speme umile e bassa

nell’un forte m’accora

e l’altro parte m’arde, stanco e veglio. (232)

L’isdegno ogni mercè vincere impara,

e s’i’ son ben del vero amico accorto,

mille piacer non vaglion un tormento. (251)

ché chi non può non esser arso e preso

nell’età verde, c’or c’è lume e specchio,

men foco assai ’l distrugge stanco e vecchio. (253)

La notte è l’intervallo, e il dí la luce:

l’uno m’agghiaccia ’l cor, l’altra l’infiamma

d’amor, di fede e d’un celeste foco. (257)

Ma po’ che del gran foco lo splendore

che m’ardeva e nutriva, il ciel m’invola,

un carbon resto acceso e ricoperto.

E s’altre legne non mi porge amore

che lievin fiamma, una favilla sola

non fie di me, sí ’n cener mi converto (266).

Il linguaggio si fa insieme piú aspro e piú deciso e chiaro, e meno enigmatico è il senso generale dei componimenti, con qualche possibile stimolo delle rime spirituali della Colonna che certamente operano (come le discussioni con lei, le letture e il commento delle lettere di san Paolo[38], contribuivano a definir meglio le istanze religiose di Michelangelo) nel senso di una maggior esplicitezza dei temi e delle forme con la loro innegabile (e certo piú accentuabile di fronte ai comuni giudizi di frigidezza) forza di accensione spirituale, con la loro maggiore costruttività monumentale, con la loro intima unione di interiorità e di espressività, di marcatura concettistica piú funzionale e legata a un linguaggio mistico piú intenso che viene piú chiaramente immettendosi nelle stesse poesie michelangiolesche d’amore.

Come può avvertirsi in quel bel madrigale 263

(La nuova beltà d’una

mi sprona, sfrena e sferza;

né sol passato è terza,

ma nona e vespro, e prossim’è la sera.

Mie parto e mie fortuna,

l’un co’ la morte scherza,

né l’altra dar mi può qui pace intera.

I’ c’accordato m’era

col capo bianco e co’ molt’anni insieme,

già l’arra in man tene’ dell’altra vita,

qual ne promette un ben contrito core.

Piú perde chi men teme

nell’ultima partita,

fidando sé nel suo proprio valore

contr’a l’usato ardore:

s’a la memoria sol resta l’orecchio,

non giova, senza grazia, l’esser vecchio)

in cui il tema dell’amore crudele e sensuale si colora di una piú forte tensione religiosa e spirituale che ormai serpeggia ovunque, rinforzando insieme il sentimento del peccato e della grazia, della svalutazione delle semplici forze umane, dell’incalzare verificatore della vecchiaia e della morte, o direttamente si spiega (amore spirituale come via diretta ad amore divino) nel 264, composto durante la malattia mortale della Colonna ed esaltante l’immagine della donna in senso di salvezza spirituale:

Come portato ho già piú tempo in seno

l’immagin, donna, del tuo volto impressa,

or che morte s’appressa,

con previlegio Amor ne stampi l’alma,

che del carcer terreno

felice sie ’l dipor suo grieve salma.

Per procella o per calma

con tal segno sicura,

sie come croce contro a’ suo avversari;

e donde in ciel ti rubò la natura,

ritorni, norma agli angeli alti e chiari,

c’a rinnovar s’impari

là sú pel mondo un spirto in carne involto,

che dopo te gli resti il tuo bel volto.

In questa zona di una forza piú sostanziosa ed esplicita lo stesso ultimo ritorno al piano della espressione piú direttamente realistico-autobiografica nelle terzine del 267 (superato tanto piú ogni margine di ragionevole consonanza con un capitolismo di tipo bernesco) assume un tono tanto piú sostanzioso e denso di acre risentimento, di violenza sarcastica nella rappresentazione deformante della propria misera situazione, in vista di temi ben precisi e sottesi da un risoluto sdegno contro il corpo vecchio, da un sentimento di aspra e ossessiva malinconia (esaltato fino al termine di una singolare «allegrezza»), da una squalifica della stessa arte che l’ha condotto a tanta miseria[39].

Pessimismo estremo che, mentre drammaticamente e grottescamente approfondisce intensamente una via essenziale di ricarico realistico delle rime piú «illustri» (piú che semplice mezzo di distacco dal petrarchismo[40]) ed estremizza un mezzo poetico di indagine sulla realtà per eccesso, ben apre la via all’ultima fase delle rime, tutte volte al dramma religioso e all’inquieta contemplazione della morte, mosse da un concentrato insistere sui dati dell’esperienza interiore, esaltati qui da una prospettiva ultrarealistica-fantastica deformante e grottesca fino al drammatico. Nella tensione realistico fantastica eccezionale spregiudicatezza, estrema diagnosi di una miseria e di un tramonto che chiedono ormai una poetica spirituale tanto piú diretta e centrale, senza ambiguità ed artifici benché alti e poeticamente funzionanti.

Ché, dopo questa prova potente che condensa in grottesca drammaticità la forza piú fonda del realismo e della fantasia michelangiolesca, e dall’attrito piú aspro di realtà e di linguaggio realistico fa scaturire le immagini piú fantastiche e allucinanti

(Dilombato, crepato, infranto e rotto

son già per le fatiche, e l’osteria

è morte, dov’io viv’e mangio a scotto.

La mia allegrezz’ è la malinconia...

[...]

Io tengo un calabron in un orciuolo,

in un sacco di cuoio ossa e capresti,

tre pillole di pece in un bocciuolo.

Gli occhi di biffa macinati e pesti,

i denti come tasti di stormento

c’al moto lor la voce suoni e resti.

La faccia mia ha forma di spavento...),

si apre l’ultima fase della sua poesia, guidata da una poetica che spesso troppo corrivamente si è voluta risolvere in un semplice bisogno di sfogo spirituale e di rifiuto dell’arte per la forma piú nuda e diretta della confessione e della contrizione devota, del placamento finale in Dio, facendone un capitolo fuori della letteratura e fuori della storia piú vera delle rime, magari ritrovando in essa insieme un piú convenzionale ricorso a echi petrarcheschi e un piú stanco ricadere nell’organismo del sonetto come forma piú convenzionale rispetto all’ardua e piú inventiva misura del madrigale[41] e sottolineando alcune dichiarazioni dello stesso Michelangelo sul carattere documentario-spirituale delle rime tarde, sulla loro debolezza senile[42].

VI.

In realtà le cose sono assai diverse e mentre già il Foscolo accortamente osservava che queste rime tarde non mancano di poesia o di cura artistica[43] (e l’apparato del Girardi mostra del resto che esse nascono per lo piú attraverso stesure e riprese assai studiate), si dovrà notare che le dichiarazioni michelangiolesche non superano certe scuse sulla sua inesperienza poetica fatte già in altri tempi (ed anzi al tempo del suo piú impegnativo «trobar») e che la scelta del sonetto, accettata risolutamente dopo due ultimi madrigali (il 268 e il 269: il primo interrotto, il secondo portato a una netta prevalenza degli endecasillabi), non può configurarsi tanto come una fiacca concessione al sonettismo del tempo e ad un’unica scelta di organismo piú convenzionale e meno ritmicamente suscettibile di novità personali, quanto come il rivolgersi a un organismo piú compatto e massiccio per un’esperienza poetica piú a blocco e a situazione intera e chiara, meno intrecciata e complicata: e che, d’altra parte, questo stesso organismo, a suo modo piú classico, è poi rivissuto con quella forza di rimembratura interna e di sconvolgimento e di apertura di ordini chiusi che è carattere anche dell’arte e specie dell’architettura michelangiolesca[44]. Mentre, del resto, molti sonetti sono lasciati frammentari o ridotti a quartine sole o a terzine sole, sentite come qualcosa di in sé compiuto e non bisognoso di totale adesione a tutto l’esemplare iter sonettistico.

In realtà queste ultime rime mirano ad una espressione che asseconda, piú che un procedimento analitico razionale, povero fantasticamente e spogliato di ogni mezzo espressivo, un discorso interiore piú saldo e piú chiaro e posseduto (sulla via della poesia già aperta nella fase precedente) e non perciò prosastico, come non sono certo prosastiche (anzi fra le cose sue piú alte) le ultime Pietà fino alla scheletrica ed essenziale Pietà Rondanini.

Assai vari i temi che si dispongono in queste ultime rime: il senso ora consapevole ora oscuro e assillante del peccato magari sconosciuto e conosciuto solo a Dio

(L’alma inquieta e confusa in sé non truova

altra cagion c’alcun grave peccato

mal conosciuto, onde non è celato

all’immensa pietà c’a’ miser giova.

I’ parlo a te, Signor, c’ogni mie pruova

fuor del tuo sangue non fa l’uom beato:

miserere di me, da ch’io son nato

a la tuo legge; e non fie cosa nuova. – 280),

l’oscillazione ancora tra la versione platonica-spirituale dell’amore che conduce a Dio

(La forza d’un bel viso a che mi sprona?

C’altro non è c’al mondo mi diletti:

ascender vivo fra gli spirti eletti

per grazia tal, c’ogni altra par men buona.

Se ben col fattor l’opra suo consuona,

che colpa vuol giustizia ch’io n’aspetti,

s’i’ amo, anz’ardo, e per divin concetti

onoro e stimo ogni gentil persona? – 279),

e quella dell’amore-passione che distrae e contamina, l’insoddisfazione dell’arte che non basta piú a quietare l’anima (285), il senso della grazia e della fede, e della limitatezza del proprio valore religioso

(Ben sarien dolce le preghiere mie,

se virtú mi prestassi da pregarte:

nel mio fragil terren non è già parte

da frutto buon, che da sé nato sie.

Tu sol se’ seme d’opre caste e pie,

che là germuglian, dove ne fa’ parte;

nessun propio valor può seguitarte,

se non gli mostri le tuo sante vie. – 292),

il contrasto col mondo cieco e col falso che trionfa (295), la certezza che Dio si adora solo nella miseria

(S’avvien che spesso il gran desir prometta

a’ mie tant’anni di molt’anni ancora,

non fa che morte non s’appressi ognora,

e là dove men duol manco s’affretta.

A che piú vita per gioir s’aspetta,

se sol nella miseria Iddio s’adora?

Lieta fortuna, e con lunga dimora,

tanto piú nuoce quante piú diletta.

E se talor, tuo grazia, il cor m’assale,

Signor mie caro, quell’ardente zelo

che l’anima conforta e rassicura,

da che ’l propio valor nulla mi vale,

subito allor sarie da girne al cielo:

ché con piú tempo il buon voler men dura. – 296),

il turbamento e il desiderio della morte che si avvicina, liberando dal corpo, ma insieme fermando il processo di purificazione e forse colpendoci proprio nello stato peccaminoso, l’ardore per il senso fisico e metafisico del sangue e dei segni del martirio di Cristo e la distinzione fra il Dio pietoso e quello giustiziere

(Scarco d’un’importuna e greve salma,

Signor mie caro, e dal mondo disciolto,

qual fragil legno a te stanco rivolto

da l’orribil procella in dolce calma.

Le spine e’chiodi e l’una e l’altra palma

col tuo benigno umil pietoso volto

prometton grazia di pentirsi molto,

e speme di salute a la trist’alma.

Non mirin co’ iustizia i tuo sant’occhi

il mie passato, e ’l gastigato orecchio;

non tenda a quello il tuo braccio severo.

Tuo sangue sol mie colpe lavi e tocchi,

e piú abondi, quant’i’ son piú vecchio,

di pronta aita e di perdono intero. – 290).

Alimentato da questi temi grandi e ansiosi[45], il nodo dinamico del contrasto e della feconda inquietudine drammatica viene riportato piú direttamente ai suoi centri motori e perciò esclude le sue ramificazioni piú esterne. Ma non perciò cede la molla interna della poesia michelangiolesca e da questa sorge una voce, piú stanca e fonda, quasi d’organo, severa e tormentata, ricca di cadenze dolenti, gravi, risentite e tenere, cariche di tensioni che trovano spazi piú interi in un attrito meno insistito, e sempre reale ed insolito.

Calata è la piú caratteristica tensione ingegnosa e l’alacrità di invenzioni di intreccio drammatico, riassorbite in forme piú sobrie e severe. E si potranno avvertire costruzioni piú fiacche e discorsive (300) e pronti abbandoni di inarcati profili piú risentiti sulle antiche antitesi (281: «Arder sole’ nel freddo ghiaccio il foco; / or m’è l’ardente foco un freddo ghiaccio»), ma ciò permette pure un nuovo discorso poetico di non «facile» continuità e di piú pronta e intensa espressività, di piú intera traduzione di interi lembi di vita interiore, che sfuggono pur sempre la «facile» sdegnata armonia e si svolgono pur sempre sulla via inamena ed aspra della poetica michelangiolesca la quale ricompone gli spazi, il ritmo, l’articolazione sempre secondo una direzione di forzatura e di apertura. Si pensi al 285 col suo finale che apre e «smisura» l’endecasillabo:

Giunto è già ’l corso della vita mia,

con tempestoso mar, per fragil barca,

al comun porto, ov’a render si varca

conto e ragion d’ogni opra trista e pia.

Onde l’affettüosa fantasia

che l’arte mi fece idol e monarca

conosco or ben com’era d’error carca

e quel c’a mal suo grado ogn’uom desia.

Gli amorosi pensier, già vani e lieti,

che fien or, s’a duo morte m’avvicino?

D’una so ’l certo, e l’altra mi minaccia.

Né pinger né scolpir fie piú che quieti

l’anima, volta a quell’amor divino

c’aperse, a prender noi, ’n croce le braccia.

Si pensi al 295 inquieto anche ritmicamente, cosí ricco di riiniziate spinte, cosí diverso da un’imitazione petrarchistica tesa all’armonico e al fluido:

Di morte certo, ma non già dell’ora,

la vita è breve e poco me n’avanza;

diletta al senso, è non però la stanza

a l’alma, che mi prega pur ch’i’ mora.

Il mondo è cieco e ’l tristo esempro ancora

vince e sommerge ogni perfetta usanza;

spent’è la luce e seco ogni baldanza,

trionfa il falso e ’l ver non surge fora.

Deh, quando fie, Signor, quel che s’aspetta

per chi ti crede? c’ogni troppo indugio

tronca la speme e l’alma fa mortale.

Che val che tanto lume altrui prometta,

s’anzi vien morte, e senza alcun refugio

ferma per sempre in che stato altri assale?

Quest’ultimo Michelangelo, sempre piú alto per il suo enorme prestigio di artista e insieme sempre piú effettivamente solo e stretto al suo dramma, tormentato piú che placato dai suoi problemi religiosi e dall’ansia di un assoluto rapporto con Dio cui osta la ricchezza inesausta delle «infinite colpe e moti umani» (forse il suo ultimo verso), riconosciuto ufficialmente, ma effettivamente sospettato di eresia, luteranesimo e viceversa paganesimo (e l’«imbraghettamento» dei nudi del Giudizio ha luogo l’anno stesso della sua morte e ben segna il vero atteggiamento della Controriforma cattolica di fronte a lui), conclude con questi alti e profondi sonetti la sua «necessaria» attività poetica che segna insieme la sua singolare e profonda storicità, lo sviluppo di una lirica religiosa di cui il Cinquecento italiano dette pochi altri segni attraverso le sue massime personalità liriche (l’ultimo Della Casa[46] e Celio Magno) e che raccorda la posizione drammatica di Michelangelo non agli svolgimenti controriformistici veri e propri (non ci si fermi troppo sull’offerta del disegno, «per pura devozione», della Chiesa del Gesú), ma ai motivi piú profondi e praticamente sconfitti (ma ben vivi e operanti nel sottofondo di una religiosità piú intima che poté solo in parte essere assorbita anche dalla Controriforma) di quella tensione ad una vera riforma cattolica che animeranno ancora la storia del Sarpi e che si collegano (in una storia di sconfitte religiose e civili) al sentimento tragico del crollo dei valori rinascimentali e della difficoltà di costituire e affermare nuovi valori umani e religiosi.

Donde l’angoscia e il tormento che un buon lettore, munito di sensibilità e di senso storico, avverte anche nelle ultime liriche come nelle ultime Pietà, la profonda risonanza storica di una voce poetica che ha sempre il suo centro nel dramma e nell’esaltazione drammatica di un valore battuto e conteso per infinite vie e pur disperatamente perseguito:

Come fiamma piú cresce piú contesa

dal vento, ogni virtú che ’l cielo esalta

tanto piú splende quant’è piú offesa.

Versi supremi della totale drammatica tensione michelangiolesca, suprema espressione del suo animo e della sua esperienza storico-esistenziale. Per simili versi e per tutta la tensione espressiva nelle lettere e nelle rime (lievito poi essenziale della sua arte figurativa) Michelangelo appartiene alla storia della nostra poesia entro la quale porta valori e aperture di singolare importanza[47].


1 Il Condivi (cito dalla edizione recente nel volume Michelangelo, a cura di P. D’Ancona, A. Pinna, I. Cardellini, Milano 1964, p. 170) narra che a Firenze subito prima della morte di Alessandro VI (1503) «se ne stette alquanto tempo quasi senza far niuna cosa in tal arte, essendosi dato alla lezione de’ poeti ed oratori volgari, ed a far sonetti per suo diletto».

2 Cfr. G. Vasari, Vita di Michelangelo, a cura di P. Barocchi, Milano-Napoli 1962, vol. I, p. 15.

3 Le rime di Michelangelo vengono di seguito citate secondo la numerazione che hanno nell’edizione critica curata da E.N. Girardi cit. In essa i frammenti qui menzionati seguono in numero di 41 nell’Appendice, pp. 142-150.

4 Si noti, una volta per tutte, come la difesa di tale sua professione contrasti con l’effettivo largo e impegnato esercizio sulla pittura, architettura e poesia e non possa in realtà seriamente invocarsi come squalifica di queste altre attività come marginali e dilettantesche.

5 Cfr. C. de Tolnay, Michelangiolo, Firenze 1951, p. 30.

6 Su questa via (che è certo caratteristica dello svolgimento, spesso centrale, di Michelangelo) si può troppo facilmente giungere ad un conglobamento manieristico troppo ricavato solo dalla presenza o prevalenza di moduli concettosi piú che dalle loro diverse ragioni e usi (cfr. il saggio dello Skommodau, Die Dichtungen Michelangiolos, in «Romanische Forschungen», 56, 1942; e quello del Weise, Manierismo e letteratura, in «Rivista di letterature moderne e comparate», 1-2, 1960). Piú corretto e fecondo mi sembra il quadro dello Scrivano nel suo Il manierismo nella letteratura del Cinquecento, Padova 1959 (cap. IV), dove la posizione di Michelangelo poeta è qualificata come «premanieristica».

7 Mi pare che, malgrado i numerosi riferimenti di singole liriche michelangiolesche a poesie petrarchesche, si sia finito per sfuggire una definizione del rapporto Michelangelo-Petrarca, tanto spesso risolta o in una generica indicazione di petrarchismo speciale e singolare, o in un’assenza che scambia petrarchismo bembistico con forme precedenti di considerazione e utilizzazione della lezione petrarchesca. In realtà la lettura delle Rime da parte di Michelangelo fu forte e fondamentale ma entro la stretta della situazione segnata dalla lezione di testi piú contemporanei, di ultimo Quattrocento e primo Cinquecento non bembistico, e nella convergenza con piú forti esigenze spirituali, morali, espressive, formali e storiche (il platonismo, il realismo, la ricerca di un’originalità di tema e di linguaggio risentito e aspro) che trovarono piú facile rispondenza nell’interpretazione petrarchesca di tipo benivieniano o nella linea di un Petrarca petroso e dantesco o piú fortemente risentito. Sicché la lettura e il rilievo delle Rime paiono sempre sottoposti in antitesi ad altri sforzi ingegnosi e spirituali, ad altre direzioni che prevalgono nella poetica michelangiolesca e portano complessivamente lontano non solo dal petrarchismo bembistico, ma anche dal tono medio del testo originario, da cui estraggono gli aspetti piú aspri, i giuochi espressivi piú tormentati, spesso gli elementi piú vicini al Dante petroso (donde la coincidenza di espressioni michelangiolesche con una doppia lettura convergente di Petrarca e Dante, ad esempio nel 263 o nel 50, ma radicalmente su una piú generale suggestione dantesca rinfrescata da certi modi del Benivieni). Interessanti in proposito sono i riscontri distintivi operati da H. Friedrich nel commento dei testi michelangioleschi riportati alla fine del suo notevole capitolo sul Buonarroti nel suo volume già citato.

8 Nelle rime di Lorenzo dei Medici (cfr. l’ed. di A. Simioni delle Opere, I, Bari 1913) il tema dell’«ardore» è estremamente insistente («e sono in loco dove sempre io ardo», II, «ch’io sento arder la face a mezzo il core», III, «caduto sono, ove arder mi conviene,» V, «Né fiamma arse giamai sí come quella / ch’arde e consuma il fortunato core», Canz. VI, vv. 19-20, «che mi togliessi il voler arder sempre», Canz. I, v. 48); la formula del contrasto fra vita e morte amorosa, fra desiderio di pace e impossibilità di trovarla, fra legame amato e libertà odiata, è frequentissima (VI, VII, XV, sestina I, Canz. I), specie in clausola sentenziosa («cosí spesso si perde ove s’acquista», XII, «Cosí del mio mal godo e del ben dolgo, / e quel ch’io cerco io stesso poi mi tolgo...», Canz. I, vv. 63-64). E frequenti sono gli eccessi aumentati di certa enigmaticità (XIII: «E se tal via a morte ne conduce, / maraviglia non è, che la mia strage / veder non posso, perché il ver m’è chiuso»). Mentre nelle rime spirituali (cfr. ed. cit., II, Bari 1914, pp. 140-141) gli stessi moduli (sole, ombra, luce, tenebre, vita, morte) ritornano portati sino all’estremo:

beata vita onde la morte viene,

cerchi; e vita, ove vita non fu mai...

Muoia in me questa mia misera vita,

acciò che viva, o vera vita, in te;

la morte in moltitudine infinita,

in te sol vita sia, che vita se’;

muoio, quando te lascio e guardo me;

converso a te, io non morrò giamai.

9 Si noti come l’«oilmè, oilmè, oilmè» del 7 sia un inserimento nel contesto amoroso-morale michelangiolesco di un’eco del componimento presente nel corpus savonaroliano O anima accecata (M. Martelli, nella sua ed. delle Poesie del Savonarola, Roma 1968, pp. 85-96, la attribuisce a Feo Belcari) e che incoraggiamenti al giuoco concettistico-verbale venivano a Michelangelo anche da questo tipo di poesia religiosa («Fami d’amor morire / e por me stesso al mondo in tanto oblio, / che, morto, in me tu viva, Gesú pio», Savonarola, Poesie cit., p. 20; «se tu non fussi, il ciel sarebbe inferno; / quel che non vive teco, sempre more»: versi del corpus savonaroliano che anch’essi risalgono al Belcari: cfr. l’ed. cit., pp. 62-68).

10 Si ricordi cosí (riscorrendo il volume di Opere, Venezia 1522) l’affermazione del dovere del poeta di rilevare il concetto nella sua particolare difficoltà e in «quel che di lui ascoso hor porta» (il cuor), carta 41v. E si colgano qua e là l’accentuazione del legame fisicamente evidenziato che stringe amante e amato («quinc’el primo disio che ’n noi si giacque / per lui di nuova canape s’allaccia», c. 42r) e platonicamente e fisicamente si trasporta nel vagheggiamento di un abbraccio in cielo («Onde goderne in cielo / ben credo alhor che con benigno volto / ridendo accoglierammi e già pensando / esser mi par nelle sua braccia accòlto», c. 100v), le intensificazioni per ripetizioni e sinonimi del termine essenziale dell’«ardore» amoroso («quell’ardor quell’incendio e quella fiamma», c. 42v; «innato disio che quell’accende», c. 42v; «infiammato cor», c. 42v; «l’ingordo e cieco cor», c. 165v, ecc.), la insistenza sulle antitesi «ombra, sole», «tenebre, luce», «ardore, ghiaccio»

(Dal miser cor che se le luce alquanto

l’interne luce sue convertir vuole

da l’ombr’al sol di quel ch’amato hai tanto,

vedrai ben come morte acerba suole

per tropp’invidia suscitar sovente

d’un ombra a suo mal grado un chiaro sole, c. 117v),

l’impegno nel rilievo concettistico e drammatico della parola «morte»

(Morte m’ha morto, e sol può ’l mio tormento

morte finir, d’ogni mio mal cagione

è morte, e morte far mi può contento, c. 100v),

la mediazione dantesca petrosa

(Dunque che debbio far? Amor mi sferza

amor mi sprona dietro a quelle luce

che son fatte per me scudiscio e sferza, c. 101r)

chiaramente risentita da Michelangelo all’inizio del 263; l’accentuazione del dramma della volontà del peccatore

(Dimmi, Anima mia, che fai che cerchi et pensi?

Penso ch’io vorrei far quel ch’io non posso, c. 168v),

lo stimolo delle rime piú apertamente intonate alla tematica religiosa della grazia divina (sulla via soprattutto delle ultime rime michelangiolesche):

Perdona al servo tuo ch’a te si dona, c. 136v.

El cor che sol pensando in lui vien meno, c. 136v.

L’infelice mio cor ch’in terra giace

tutto contrito ad te Signor, s’estende

da questo mondo miser e fallace, c. 136v.

Tu per me ’n croce per amor confitto

col proprio sangue n’hai ricomperato

l’error mio, le mie colpe e ’l mio delitto, c. 135r.

Si noti ancora che vari passi citati derivano dalla Canzone d’amore commentata dal Pico. E proprio in Pico e Benivieni si prosegue quella linea «di drammatico petrarchismo platonico-religioso e dantesco che muovendo dal Comento laurenziano e passando attraverso le poesie dello stesso Pico e soprattutto di quelle dell’amico suo fraterno Girolamo Benivieni (nonché di altri minori poeti dell’età laurenziana e savonaroliana) culminerà nelle Rime di Michelangelo», linea su cui incide fortemente il commento dantesco del Landino (come dice – rifacendosi agli spunti di questo mio saggio nell’edizione del ’65 – Roberto Cardini nel suo Cristoforo Landino e l’umanesimo volgare, Firenze 1973, pp. 229-230). Per quanto riguarda il forte influsso del commento landiniano su Michelangelo si veda A. Chastel, Art et humanisme à Florence au temps de Laurent le Magnifique, Paris 1961, pp. 125-128. Da tempo auspico una edizione critica delle opere del Benivieni e un nuovo studio monografico su questo importante scrittore.

11 P.L. De Vecchi, Studi sulla poesia di Michelangelo, in «Giornale storico della letteratura italiana», 429-431 (1963), p. 371.

12 Quanto si gode, lieta e ben contesta

di fior sopra ’crin d’or d’una, grillanda

che l’altro inanzi l’uno all’altro manda,

come ch’il primo sia a baciar la testa!

Contenta è tutto il giorno quella vesta

che serra ’l petto e poi par che si spanda,

e quel c’oro filato si domanda

le guanci’ e ’l collo di toccar non resta.

Ma piú lieto quel nastro par che goda,

dorato in punta, con sí fatte tempre

che preme e tocca il petto ch’egli allaccia.

E la schietta cintura che s’annoda

mi par dir seco: qui vo’ stringer sempre.

Or che farebbon dunche le mie braccia? (4).

13 Ma piú vicine, come tono, sono le invettive dantesche di san Pietro e gli echi delle prediche savonaroliane.

14

Chiunche nasce a morte arriva

nel fuggir del tempo; e ’l sole

niuna cosa lascia viva.

Manca il dolce e quel che dole

e gl’ingegni e le parole:

e le nostre antiche prole

al sole ombre, al vento un fummo.

Comme voi uomini fummo,

lieti e tristi, come siete;

e or siàn, come vedete,

terra al sol, di vita priva.

Ogni cosa a morte arriva.

Già fur gli occhi nostri interi

con la luce in ogni speco;

or sono voti, orrendi e neri,

e ciò porta il tempo seco.

15

Chi è quel che per forza a te mi mena,

oilmè, oilmè, oilmè,

legato e stretto, e son libero e sciolto?

Se tu incateni altrui senza catena,

e senza mane o braccia m’hai raccolto,

chi mi difenderà dal tuo bel volto? (7).

Si vedano anche i madrigali:

8

Come può esser ch’io non sia piú mio?

O Dio, o Dio, o Dio,

chi m’ha tolto a me stesso,

c’a me fusse piú presso

o piú di me potessi che poss’io?

O Dio, o Dio, o Dio,

come mi passa el core

chi non par che mi tocchi?

Che cosa è questo, Amore,

c’al core entra per gli occhi,

per poco spazio dentro par che cresca?

E s’avvien che trabocchi?

11

Quanto sare’ men doglia il morir presto

che provar mille morte ad ora ad ora,

da ch’in cambio d’amarla, vuol ch’io mora!

Ahi, che doglia ’nfinita

sente ’l mio cor, quando li torna a mente

che quella ch’io tant’amo amor non sente!

Come resterò ’n vita?

Anzi mi dice, per piú doglia darmi,

che se stessa non ama: e vero parmi.

Come posso sperar di me le dolga,

se se stessa non ama? Ahi trista sorte!

Che fia pur ver, ch’io ne trarrò la morte?

15

Di te me veggo e di lontan mi chiamo

per appressarm’al ciel dond’io derivo,

e per le spezie all’esca a te arrivo,

come pesce per fil tirato all’amo.

E perc’un cor fra dua fa picciol segno

di vita, a te s’è dato ambo le parti;

ond’io resto, tu ’l sai, quant’io son, poco.

E perc’un’alma infra duo va ’l piú degno,

m’è forza, s’i’ voglio esser, sempre amarti;

ch’i’ son sol legno, e tu se’ legno e foco.

16 È sostanzialmente una posizione del saggio citato del Contini, cosí importante nella rivendicazione dell’impegno stilistico di Michelangelo, ma non accettabile, dal mio punto di vista, nella risoluzione dell’elemento drammatico e dinamico in elementi di conoscenza e in disposizione fissa e senza storia. Si veda quanto dice in proposito, anche se in maniera piuttosto enfatica, il Girardi nella sua relazione al Convegno michelangiolesco.

17 Cfr. per i versi del 48, la terzina 85-87 del XXVI del Paradiso:

Come la fronda che flette la cima

nel transito del vento, e poi si leva

per la propria virtú che la sublima.

18

Nuovo piacere e di maggiore stima

veder l’ardite capre sopr’un sasso

montar, pascendo or questa or quella cima,

e ’l mastro lor, con aspre note, al basso,

sfogare el cor colla suo rozza rima... (vv. 1-5).

19

e la suo vaga, che ha ’l cor di ferro,

star co’ porci, in contegno, sott’un cerro (vv. 7-8).

20

Qui non mi regge e non mi spinge il cielo,

ma potenti e terrestri e duri venti (vv. 13-14).

21

37

In me la morte, in te la vita mia;

tu distingui e concedi e parti el tempo;

quante vuo’, breve e lungo è ’l viver mio.

Felice son nella tuo cortesia.

Beata l’alma, ove non corre tempo,

per te s’è fatta a contemplare Dio.

38

Quanta dolcezza al cor per gli occhi porta

quel che ’n un punto el tempo e morte fura!

Che è questo però che mi conforta

e negli affanni cresce e sempre dura.

Amor, come virtú viva e accorta,

desta gli spirti ed è piú degna cura.

Risponde a me: – Come persona morta

mena suo vita chi è da me sicura. –

Amore è un concetto di bellezza

immaginata o vista dentro al core,

amica di virtute e gentilezza.

39

Del fiero colpo e del pungente strale

la medicina era passarmi ’l core;

ma questo è propio sol del mie signore,

crescer la vita dove cresce ’l male.

E se ’l primo suo colpo fu mortale,

seco un messo di par venne d’Amore

che mi disse: – Ama, anz’ardi; ché chi muore

non ha da gire al ciel nel mondo altr’ale.

I’ son colui che ne’ prim’anni tuoi

gli occhi tuo infermi volsi alla beltate

che dalla terra al ciel vivo conduce. –

41

Spirto ben nato, in cu’ si specchia e vede

nelle tuo belle membra oneste e care

quante natura e ’l ciel tra no’ può fare,

quand’a null’altra suo bell’opra cede:

spirto leggiadro, in cu’ si spera e crede

dentro, come di fuor nel viso appare,

amor, pietà, mercè, cose sí rare,

che ma’ furn’in beltà con tanta fede:

l’amor mi prende e la beltà mi lega;

la pietà, la mercè con dolci sguardi

ferma speranz’ al cor par che ne doni.

Qual uso o qual governo al mondo niega,

qual crudeltà per tempo o qual piú tardi,

c’a sí bell’opra morte non perdoni?

42

Dimmi di grazia, Amor, se gli occhi mei

veggono ’l ver della beltà c’aspiro,

o s’io l’ho dentro allor che, dov’io miro,

veggio scolpito el viso di costei.

Tu ’l de’ saper, po’ che tu vien con lei

a torm’ogni mie pace, ond’io m’adiro;

né vorre’ manco un minimo sospiro,

né men ardente foco chiederei.

– La beltà che tu vedi è ben da quella,

ma cresce poi c’a miglior loco sale,

se per gli occhi mortali all’alma corre.

Quivi si fa divina, onesta e bella,

com’a sé simil vuol cosa immortale:

questa e non quella agli occhi tuo precorre. –

22

Tu m’entrasti per gli occhi, ond’io mi spargo,

come grappol d’agresto in un’ampolla,

che doppo ’l collo cresce ov’è piú largo;

cosí l’immagin tua, che fuor m’immolla,

dentro per gli occhi cresce, ond’io m’allargo

come pelle ove gonfia la midolla;

entrando in me per sí stretto vïaggio,

che tu mai n’esca ardir creder non aggio.

Come quand’entra in una palla il vento,

che col medesmo fiato l’animella,

come l’apre di fuor, la serra drento,

cosí l’immagin del tuo volto bella

per gli occhi dentro all’alma venir sento;

e come gli apre, poi si serra in quella;

e come palla pugno al primo balzo,

percosso da’ tu’ occhi al ciel po’ m’alzo (vv. 73-88).

23 Gli inizi del 57, 58, 61, 64, 72, 77.

24 Se si escludono il capitolo al Berni, 85, e l’interrotto componimento in terzine del 1534 per la morte del padre (186) che è importante e intenso specie nella parte finale, dove il senso della miseria umana, l’invidia per il padre morto e il suo insegnamento a morire («Nel tuo morire el mie morire imparo», che sarà ripreso nella grande lettera sulla morte di Urbino e mostra certi ritorni di motivi delle rime nelle lettere sul piano piú vicino della meditazione derivata dall’esperienza; cfr. p. 108), l’avvertimento di una dimensione sottratta a «fortuna e tempo» si dispongono in una voce angosciata e ferma che fa pensare alle ultime rime e documenta il persistere di un piano di malinconia esistenziale che è fondamentale nella personalità ed esperienza michelangiolesca.

25 Si pensi al finale del sonetto 98 che giuoca sul nome del Cavalieri:

Se vint’ e preso i’ debb’esser beato,

maraviglia non è se nudo e solo

resto prigion d’un cavalier armato;

e al giuoco sul nome di Febo da Poggio (99):

Le penne mi furn’ale e ’l poggio scale,

Febo lucerna a’ piè...

26 Lettera a Giovan Francesco Fattucci del dicembre 1525 (Carteggio, III, pp. 190-191), in cui immaginando un colosso di quaranta braccia (desiderato da Clemente VII), con una bottega di barbiere sotto e con «un chorno di dovitia in mano» (per farne uscire il fumo della bottega), Michelangelo pensò «un’altra fantasia»: «e questa è che ’l chapo suo servissi pel champanile di San Lorenzo, che n’à un gran bisognio; e chacciandovi dentro le champane, e usciendo el suono per bocha, parrebbe che decto cholosso gridassi miserichordia...».

27 Come si può vedere dal 111 in cui l’invito alla donna a disegnare dentro di lui l’immagine della sua divinità si appoggia all’analogia con il suo operare artistico:

com’io fo in pietra od in candido foglio,

che nulla ha dentro, e évvi ciò ch’io voglio.

28 Si rilegga in proposito il 172 dalla bellissima apertura e con chiare riprese dantesche (il concio della «montanina», come la «mordace lima» del 161 richiama la «dispietata lima che sordamente la mia vita scemi» di «Cosí nel mio parlar voglio esser aspro», e tutta la direzione dell’amore crudele risente chiaramente delle petrose e della loro tensione aspra ed eccezionale, fisico-metafisica), anche se si possa reinserire in questa linea la lettura dello stesso Petrarca «petroso»:

Costei pur si delibra,

indomit’e selvaggia,

ch’i’arda, mora e caggia

a quel c’a peso non sie pure un’oncia;

e ’l sangue a libra a libra

mi svena, e sfibra e ’l corpo all’alma sconcia.

La si gode e racconcia

nel suo fidato specchio,

ove sé vede equale al paradiso;

po’, volta a me, mi concia

sí, c’oltr’all’esser vecchio,

in quel col mie fa piú bello il suo viso,

ond’io vie piú deciso

son d’esser brutto; e pur m’è gran ventura,

s’i’vinco, a farla bella, la natura.

29 Intorno a cui cominciano a raccogliersi veri e propri temi della discussione sulla grazia, sul valore dell’«umile peccato»

(Ora in sul destro, ora in sul manco piede

variando, cerco della mie salute.

Fra ’l vizio e la virtute

il cor confuso mi travaglia e stanca,

come chi ’l ciel non vede,

che per ogni sentier si perde e manca.

Porgo la carta bianca

a’ vostri sacri inchiostri,

c’amor mi sganni e pietà ’l ver ne scriva:

che l’alma, da sé franca,

non pieghi agli error nostri

mie breve resto, e che men cieco viva.

Chieggo a voi, alta e diva

donna, saper se ’n ciel men grado tiene

l’umil peccato che ’l superchio bene. – 162),

sulla vanità di sperare salvezza senza grazia

(Per fido esemplo alla mia vocazione

nel parto mi fu data la bellezza,

che d’ambo l’arti m’è lucerna e specchio.

S’altro si pensa, è falsa opinione.

Questo sol l’occhio porta a quella altezza

c’a pingere e scolpir qui m’apparecchio.

S’e’ giudizi temerari e sciocchi

al senso tiran la beltà, che muove

e porta al cielo ogni intelletto sano,

dal mortale al divin non vanno gli occhi

infermi, e fermi sempre pur là d’ove

ascender senza grazia è pensier vano. – 164).

30 Inviando al Del Riccio (che raccoglieva rime anche di altri per la celebrazione del diletto nipote) i componimenti a mano a mano che li aveva composti e in rapporto ai doni con cui l’amico lo compensava della sua fatica di verseggiatore, Michelangelo aggiunge agli epitaffi note come queste: «Quande voi non ne volete, non mi mandate piú niente», «Jo non velo volevo mandare, perché è cosa molto goffa; ma le trote e’ tartufi sforzerebono il cielo», «Per i fungi insalati, po’ che non volete altro», «Questo goffo decto mille volte pe’ finocchi», «Questo dicono le trote e non io; però s’e’ versi non vi piacciono, non le marinate piú senza pepe», «Per la tortola; pe’ pesci farà Urbino che se gli à pappati», «Pel pane inficato» ecc. ecc. Ma non manca la coscienza ambigua di cose «goffe», e al 186 segue una nota che chiarisce quel tanto di piú impegnativo che pure non manca al fondo di questa sconcertante serie. Chiarito il concetto dell’epigramma, Michelangelo aggiunge: «E questo è el contrario del concecto che mi dicesti ieri; e l’uno è favola, e l’altro è verità» (cfr. Rime, ed. Girardi cit., pp. 369 ss.). È troppo semplice e sbagliato insorgere contro la crudeltà o frivolezza di questo giuoco ambiguo e meglio è capirne la prospettiva e ritrovarne insieme i pericoli e gli elementi di fascino e di poesia.

31 Il pensiero della morte come mezzo di possesso di se stessi e difesa dalle passioni è l’oggetto di una precisa dichiarazione attribuita a Michelangelo nei Dialoghi del Giannotti (ed. De Campos cit., pp. 67-69). La dichiarazione si apre con il rifiuto dell’artista ad andare a pranzo con gli amici perché cosí facendo si rallegrerebbe troppo «et io non mi voglio tanto rallegrare». E all’elogio umanistico della distrazione e della «honesta dilettatione» da parte del Giannotti, Michelangelo contrappone prima la sua tensione alle persone che lo porta fuori di se stesso, e poi, piú in profondo, l’elogio del pensiero della morte: «Et vi ricordo che a voler ritrovare et godere sé medesimo, non è mestiere pigliare tante dilettationi et tante allegrezze, ma bisogna pensare alla morte. Questo pensiero è solo quello che ci fa riconoscere noi medesimi, che ci mantiene in noi uniti, senza lassarci rubare a’ parenti, agli amici, a’ gran maestri, all’ambitione, all’avaritia, et agli altri vicij et peccati che l’huomo all’huomo rubano et lo tengono disperso et dissipato, senza mai lassarlo ritrovarsi et riunirsi. Et è maraviglioso l’effetto di questo pensiero della morte, il quale – distruggendo ella per natura sua tutte le cose – conserva et mantiene coloro che a lei pensano et da tutte l’humane passioni li difende». E cita, in proposito, il «madrialetto» («Non pur la Morte, ma ’l pensier di quella») che svolge questa meditazione e cosí offre un esempio di come il giuoco concettistico michelangiolesco abbia pur sempre alla base una meditazione e uno sforzo di indagine sulla esperienza sentimentale e vitale.

32 Si ricordino, come appoggio di queste rime, le battute dei Dialoghi del Giannotti in cui Michelangelo parla della sua tensione alle persone che abbiano qualche virtú, che lo costringe a innamorarsi di loro e a darsi a loro «in maniera in preda, che io non sono piú mio, ma tutto suo» (Dialoghi cit., p. 68).

33 Alla fine dei Dialoghi del Giannotti, prima di recitare il sonetto 248, Michelangelo sdegnosamente afferma anche di fronte ai cari amici che il loro orecchio non è degno di ascoltare le lodi di simile uomo. E il 250 termina con queste parole: «simil uom né maggior non nacque mai».

34

Non è piú tempo, Amor, che ’l cor m’infiammi,

né che beltà mortal piú goda o tema:

giunta è già l’ora strema

che ’l tempo perso, a chi men n’ha, piú duole.

Quante ’l tuo braccio dammi,

morte i gran colpi scema,

e’ sua accresce piú che far non suole.

Gl’ingegni e le parole,

da te di foco a mio mal pro passati,

in acqua son conversi;

e Die ’l voglia c’or versi

con essa insieme tutti e’ mie peccati.

35

Dal ciel discese, e col mortal suo, poi

che visto ebbe l’inferno giusto e ’l pio,

ritornò vivo a contemplare Dio,

per dar di tutto il vero lume a noi.

Lucente stella, che co’ raggi suoi

fe’ chiaro a torto el nido ove nacqu’io,

né sare’ ’l premio tutto ’l mondo rio;

tu sol, che la creasti, esser quel puoi.

Di Dante dico, che mal conosciute

fur l’opre suo da quel popolo ingrato

che solo a’ iusti manca di salute.

Fuss’io pur lui! c’a tal fortuna nato,

per l’aspro esilio suo, co’ la virtute,

dare’ del mondo il piú felice stato. (248)

Quante dirne si de’ non si può dire,

ché troppo agli orbi il suo splendor s’accese;

biasmar si può piú ’l popol che l’offese,

c’al suo men pregio ogni maggior salire.

Questo discese a’ merti del fallire

per l’util nostro, e poi a Dio ascese;

e le porte, che ’l ciel non gli contese,

la patria chiuse al suo giusto desire.

Ingrata, dico, e della suo fortuna

a suo danno nutrice; ond’è ben segno

c’a’ piú perfetti abonda di piú guai.

Fra mille altre ragion sol ha quest’una:

se par non ebbe il suo exilio indegno,

simil uom né maggior non nacque mai. (250)

36 Il Giannotti nei Dialoghi sottolinea (da fuoruscito fiorentino e da storico della perduta libertà) la verità di quella quartina (Dialoghi cit., p. 45).

37

– Per molti, donna, anzi per mille amanti

creata fusti, e d’angelica forma;

or par che ’n ciel si dorma,

s’un sol s’appropia quel ch’è dato a tanti.

Ritorna a’ nostri pianti

il sol degli occhi tuo, che par che schivi

chi del suo dono in tal miseria è nato.

– Deh, non turbate i vostri desir santi,

ché chi di me par che vi spogli e privi,

col gran timor non gode il gran peccato;

ché degli amanti è men felice stato

quello, ove ’l gran desir gran copia affrena,

c’una miseria di speranza piena.

38 Come si apprende dai Dialoghi di Francesco d’Olanda (Roma 1953, p. 52). E si ricordi quanto la Colonna dice in una lettera a Michelangelo circa i discorsi di lui su Cristo («del quale con tanto ardente et humil core mi parlaste al mio partir da Roma», V. Colonna, Carteggio, a cura di E. Ferrero e G. Müller, Torino 1892, p. 268). Né sarà da trascurare come coincidenza di indirizzo spirituale quel brano della lettera della Colonna sull’adultera del Vangelo con il doppio ritratto di un Cristo pietoso e del Cristo giustiziere, risoluto e implacabile come quello del Giudizio Universale che Michelangelo dipingeva in quegli anni (Carteggio, p. 241): «Tutto armato... mostrerà la sua giustizia, la maestà, la grandezza, l’infinita potestà, né sarà tempo di misericordia, né loco di grazia». Michelangelo, che ben conobbe i sonetti della Colonna, e dové leggerli con un interesse tanto maggiore di quello con cui poté guardare ad altri lirici (Bembo, Sannazzaro, Caro) cui accenna (insieme alla Colonna) il Condivi (ma che Michelangelo non sentiva e seguiva), poté pure risentirne certa rinnovata spinta ad espressioni piú aperte e squadrate

(Signor, che ’n quella inaccessibil luce,

quasi in alta caligine t’ascondi

ma chiara grazia e chiari rai diffondi

dall’alto specchio ond’ogni ben traluce...

Ovunque giro gli occhi o fermo il core

in questa oscura luce a viver morto...

Vorrei che ’l vero sol, cui sempre invoco,

mandasse un lampo eterno entro la mente...

Con la croce a gran passi ir vorrei dietro

al Signor per l’angusto erto sentiero...),

ma soprattutto ne ricevé uno stimolo al tema dell’unione con Cristo e della sua grazia superiore alle nostre opere su di una via di meditazione che porta non una «conversione», ma una piú intensa sicurezza in alcuni temi fondamentali che affiorano piú scopertamente nelle ultime rime. Le quali nascono cosí da un profondo attrito di esperienza e di cultura e mal possono assimilarsi all’esito religioso di tanti canzonieri di imitazione petrarchesca. Penso cosí che se lo Spini, nella sua relazione ricordata, ha ragione nel cercare una continuità di atteggiamenti religiosi di origine savonaroliana, e aperti quindi all’incontro con la Colonna, il Pole, il Carnesecchi, il Valdés, non si possa tuttavia negare, d’accordo con il Tolnay, che su quella linea di preparazione l’incidenza dei nuovi incontri (specie nel periodo in cui avvengono e dopo la grave delusione dell’assedio fiorentino) sia molto rilevante e si traduca in una spinta interiore sempre piú forte e in una piú precisata tematica religiosa.

39

I’ sto rinchiuso come la midolla

da la sua scorza, qua pover e solo,

come spirto legato in un’ampolla:

e la mia scura tomba è picciol volo,

dov’è Aragn’ e mill’opre e lavoranti,

e fan di lor filando fusaiuolo.

D’intorn’a l’uscio ho mete di giganti,

ché chi mangi’uva o ha presa medicina

non vanno altrove a cacar tutti quanti.

I’ ho ’mparato a conoscer l’orina

e la cannella ond’esce, per quei fessi

che ’nanzi dí mi chiamon la mattina.

Gatti, carogne, canterelli o cessi,

chi n’ha per masserizi’ o men viaggio

non vïen a mutarmi mai senz’essi.

L’anima mia dal corpo ha tal vantaggio,

che se stasat’ allentasse l’odore,

seco non la terre’ l pan e ’l formaggio.

La toss’ e ’l freddo il tien sol che non more;

se la non esce per l’uscio di sotto,

per bocca il fiato a pen’ uscir può fore.

Dilombato, crepato, infranto e rotto

son già per le fatiche, e l’osteria

è morte, dov’io viv’ e mangio a scotto.

La mia allegrezz’ è la maninconia,

e ’l mio riposo son questi disagi:

che chi cerca il malanno, Dio gliel dia.

Chi mi vedess’ a la festa de’ Magi

sarebbe buono; e piú, se la mia casa

vedessi qua fra sí ricchi palagi.

Fiamma d’amor nel cor non m’è rimasa;

se ’l maggior caccia sempre il minor duolo,

di penne l’alma ho ben tarpata e rasa.

Io tengo un calabron in un orciuolo,

in un sacco di cuoio ossa e capresti,

tre pilole di pece in un bocciuolo.

Gli occhi di biffa macinati e pesti,

i denti come tasti di stormento

c’al moto lor la voce suoni e resti.

La faccia mia ha forma di spavento;

i panni da cacciar, senz’altro telo,

dal seme senza pioggia i corbi al vento.

Mi cova in un orecchio un ragnatelo,

ne l’altro canta un grillo tutta notte;

né dormo e russ’ al catarroso anelo.

Amor, le muse e le fiorite grotte,

mie scombiccheri, a’ cemboli, a’ cartocci,

agli osti, a’ cessi, a’ chiassi son condotte.

Che giova voler far tanti bambocci,

se m’han condotto al fin, come colui

che passò ’l mar e poi affogò ne’ mocci?

L’arte pregiata, ov’alcun tempo fui

di tant’opinïon, mi rec’a questo,

povero, vecchio e servo in forz’altrui,

ch’i’ son disfatto, s’i’ non muoio presto.

40 Semmai un gusto di «antipetrarchismo» puntuale si potrà trovare nel verso isolato (frammento 16) «Febbre, fianchi, dolor, morbi, occhi e denti» che riprende, a contrasto, un famoso verso petrarchesco, esempio di tanti esercizi petrarchistici di gravità e di armonica asprezza: «Fior, frondi, erbe, ombre, antri, onde, aure soavi» (CCCIII, v. 5). Ma il verso non ebbe continuazione: era una via troppo facile e banale per Michelangelo.

41 è soprattutto la tesi recente che chiude il saggio di De Vecchi, Studi sulla poesia di Michelangelo cit.

42 «Voi direte ben ch’io sie vechio e pazzo a voler fare sonetti: ma perché molti dicono ch’io son rimbambito, ò voluto far l’uficio mio» (Lettere, t. R., ediz. Milanesi, 19 settembre 1554, p. 534); «Messer Giorgio, io vi mando dua sonetti; e benché sieno cosa sciocca, il fo perché veggiate dove io tengo i mie pensieri» (in Rime, ed. Girardi cit., p. 455).

43 Cfr. U. Foscolo, Saggi e discorsi critici, in Opere, ed. naz., vol. X, a cura di C. Foligno, Firenze 1953, pp. 506-507, dove dice: «A ottant’anni e anche piú oltre, il sacro fuoco della poesia non era ancora estinto nel suo petto, ma vi ardeva sempre di fiamma lucentissima e bellissima. Vorremmo dar qui uno dei suoi sonetti scritti in quel tempo, nel quale non mancan né la grazia del dire, né la melodia del verso, né l’usato vigore, né la novità dell’invenzione...». Dovrebbe esser chiaro ormai che i giudizi foscoliani (uno del 1822, l’altro del 1826) van letti in tutta la loro intera articolazione e successione, senza fermarsi solo alla prima formulazione generale (cfr. in proposito quanto dice il Girardi sulla storia della critica michelangiolesca nella sua relazione al Congresso piú volte nominato, poi in «Aevum», XL, 1966, 3-4).

44 P. Portoghesi, La biblioteca Laurenziana, in Michelangelo architetto, a cura di B. Zevi e P. Portoghesi cit., specie alle pp. 237-239.

45 Si può citare in proposito anche il sonetto 298 con la grandiosa visione dello sconvolgimento della terra al momento della morte di Cristo:

Non fur men lieti che turbati e tristi

che tu patissi, e non già lor, la morte,

gli spirti eletti, onde le chiuse porte

del ciel, di terra a l’uom col sangue apristi.

Lieti, poiché, creato, il redemisti

dal primo error di suo misera sorte;

tristi, a sentir c’a la pena aspra e forte,

servo de’ servi in croce divenisti.

Onde e chi fusti, il ciel ne diè tal segno

che scurò gli occhi suoi, la terra aperse,

tremorno i monti e torbide fur l’acque.

Tolse i gran Padri al tenebroso regno,

gli angeli brutti in piú doglia sommerse;

godé sol l’uom, c’al battesmo rinacque.

46 Sul Della Casa e specie sull’ultima altissima sua produzione lirica rinvio al mio saggio in Critici e poeti dal Cinquecento al Novecento, Firenze, La Nuova Italia, 1951, 19693.

47 In una prospettiva europea è poi anche piú facile intendere la poetica michelangiolesca in rapporto a posizioni della lirica di fine Cinquecento e primo Seicento, anche se tutto ciò richiederebbe particolari discorsi: si vedano gli accenni a Michelangelo in rapporto alla lirica inglese in M. Praz (Machiavelli in Inghilterra, Roma 1942, pp. 235-237), in S. Rosati (John Donne, Poesie scelte, Napoli 1958, passim) e in G. Melchiori (Poeti metafisici inglesi del Seicento, Milano 1964, pp. 25-26 e 29).